di Alessandra Pigliaru
Lo sapevamo tutte, che era stata ammazzata. È ciò che da ieri in moltissime hanno scritto, inondando i social con un hashtag, quando è stato ritrovato il corpo di Giulia Tramontano, ventinove anni, uccisa dal suo compagno. Dopo averla accoltellata e aver tentato di dare fuoco al cadavere per due volte, non riuscendoci. Il compagno ne ha poi inscenato l’allontanamento volontario in seguito a una discussione. Lo sapevamo tutte, che dopo quel confronto in cui, incinta di sette mesi, Giulia Tramontano era tornata nella loro casa di Senago (nel milanese) per chiedere conto della relazione parallela di lui appena scoperta, non era riuscita ad andare da nessuna parte. Perché a un livello profondo è questo un sapere che è anzitutto un sentire, una vicinanza intima e materiale alle nostre simili, ovunque si trovino.
Che Alessandro Impagnatiello, ora in carcere, abbia confessato il femminicidio e indicato il luogo in cui aveva inteso sbarazzarsi della sua fidanzata, e di suo figlio, è ulteriore corollario all’epilogo intuibile. Non lo ha potuto fare invece Massimiliano Carpineti, che ieri mattina ha ucciso Pierpaola Romano, perché dopo averle sparato nell’androne di casa a Torraccia (nord est di Roma) si è ucciso. Dividevano lo stesso ufficio, erano entrambi in polizia. Che cosa accomuna questi due femminicidi è intanto che a commetterli sono stati degli uomini. Sono tuttavia le cronache non di «morti annunciate» ma le storie che rendono situati e incarnati i dati della violenza maschile contro le donne e che contano a oggi in Italia (dall’inizio del 2023) 47 donne uccise, di cui 38 in ambito familiare-affettivo. E se il «movente» per l’uccisione di Pierpaola Romano verrà confermato, sono 39.
È un numero consistente, impariamo almeno a usare le parole giuste, quando ne scriviamo – a qualsiasi titolo – e ne parliamo – in ogni occasione utile – tenendo stretti gli orli di ciò su cui non si deve arretrare nemmeno di un millimetro: non c’è «passionalità» nella volontà deliberata di uccidere una donna. Non c’è una sorta di corresponsabilità in una dinamica precisa in cui a morire è una donna in quanto tale e per aver manifestato il desiderio di andarsene o di agire la propria libertà, anche dicendo di no, preferirei di no.
È inaccettabile proseguire con questa solfa secondo cui ci saranno state delle avvisaglie precedenti e dunque sono le ragazze, le donne che andrebbero educate «a mettersi in salvo». Nessuna vuole né augura a se stessa di essere uccisa mentre è vero che, nonostante una rivalutazione delle pene (la ministra Roccella ha annunciato ieri che in Cdm ci sarà presto un pacchetto di norme anti violenza), nonostante le giornate internazionali in cui si fa il punto, la violenza maschile contro le donne non perde la sua fisionomia di fenomeno sistemico e strutturale. Con radici antiche che illuminano la vera questione: quella maschile, di una voracità proprietaria così prevaricante da risultare impraticabile per chiunque altro tranne che per gli stessi uomini. Anche se dire che li riguarda ormai non è sufficiente, non basta più.
Nel frattempo, mentre i centri antiviolenza sono in perenne affanno, si amplifica la retorica pubblica sulla «vita» e sulla famiglia come società «naturale» e inscalfibile. La realtà però dice il contrario, e lo dice sui corpi delle donne. Bisogna chiamarli femminicidi, lo sappiamo tutte, siamo nella posizione di poterlo dire anche al presente che lo sappiamo. Da sempre.
(Il manifesto, 3 giugno 2023)