16 Marzo 2023
Corriere della Sera

Marjane Satrapi: nel mio paese è caduta la cultura patriarcale e misogina

di Greta Privitera


Marjane Satrapi dice parolacce a raffica. Le dice quando ride, ma anche quando si infervora contro il regime. Le piace soprattutto «Fuck them», che di solito fa seguire ai nomi di chi governa il suo Paese, l’Iran, dal quale manca da ventitré anni. La scrittrice, fumettista e regista, si definisce una «old fart», tradotto gentilmente una «vecchia bacucca». 
Dal suo appartamento parigino fuma sigarette e guarda con ammirazione la nuova generazione di iraniane e iraniani che fanno la rivoluzione. Sei mesi fa veniva uccisa Mahsa Amini, la ventiduenne curda ammazzata di botte per una ciocca di capelli che sfuggiva dal velo, diventata il simbolo di chi lotta per la libertà. Ma 181 giorni dopo quel 16 settembre, il bilancio è drammatico: oltre 20mila gli arresti, quasi 600 le persone uccise, quattro impiccati. Le Guardie della rivoluzione hanno sparato, represso e terrorizzato, e le strade, a poco a poco, si sono svuotate. 
Le proteste continuano soprattutto sui social e sui muri delle città mentre all’estero ci si chiede se Khamenei e i suoi non abbiano già vinto. Nelle ultime ore, però, i profili Instagram degli attivisti e di Satrapi sono invasi da video di manifestazioni per il capodanno persiano, che contano già morti e feriti. L’autrice del capolavoro Persepolis scrive in francese: «Dedicato a tutti quelli che credono che la rivoluzione iraniana sia finita». La rivoluzione, spiega, è uno tsunami. 
Cioè? 
«Prima c’è il terremoto, poi le piccole onde. Sembra che tutto si fermi ma all’improvviso arriva quella di sei metri che spazza via tutto. È fisiologico che dopo essere stati colpiti agli occhi, violentati, messi in prigione, torturati, i giovani siano quasi spariti dalle strade. Ma la paura non basta più, i veli sono abbassati, è la fine del bullo». 
Che cosa intende? 
«Una volta che smetti di temere il bullo, lui perde la sua forza. Se gli tiri un pugno magari ti rompe un dente, ma tu colpirai ancora perché ti sei liberato: stiamo per ricolpire». 
Perché questa rivoluzione è diversa dalle altre? 
«È caduta la cultura patriarcale e misogina. Nel 1979 solo il 40% degli iraniani sapeva leggere e scrivere, oggi più dell’80%, soprattutto donne. Il regime ha creato moltissime scuole per indottrinarci, ma ha fatto male i conti: una volta che sai leggere, leggi quello che vuoi e sei libero». 
La sua generazione sapeva già leggere. 
«Sì, ma avevamo ancora paura. Tutte le generazioni precedenti a questa hanno subito un trauma: lo scià, la rivoluzione del ’79, la guerra contro l’Iraq. La Generazione Z non conosce guerre, né uccisioni di massa. E, soprattutto, ha Internet, la chiave di tutto. Noi conoscevamo il mondo tramite il mercato nero. Questi giovani sono come i coetanei di New York e Parigi. Sfidano il regime ballando su TikTok mentre l’ayatollah è fermo al medioevo e non li capisce. La Repubblica islamica è già finita». 
Personaggi della diaspora, come il principe Reza Ciro Pahalavi e l’attivista Masih Alinejad si dicono disponibili a traghettare l’Iran verso un referendum. Che cosa ne pensa? 
«Aiutare la transizione può essere una buona cosa. Ma i leader futuri non sono fuori, sono nelle prigioni, come Evin. Noi possiamo portare la loro voce all’estero, chiedere di mettere i pasdaran nella lista dei terroristi, dire ai governi occidentali di non fare affari con Khamenei. Ma ricordiamoci che noi abbiamo lasciato il Paese, loro no. Mentre parlo da Parigi, in Iran si prendono pallottole in faccia. Chiunque abbia mire personali faccia un passo indietro». 
C’è qualcosa che ci sfugge da qui? 
«Non mi piace che venga chiamata la rivoluzione delle donne. È sicuramente partita da loro, ma è forte perché è di tutti, è così femminista che non c’entra il genere. Ci sono donne, uomini, operai, studenti, minoranze, ricchi, poveri. In Iran sono stata fermata quasi sempre da guardie femmine». 
Quando? 
«Moltissime volte. Un giorno mi dissero: con le tue calze rosse metti in pericolo l’Islam». 
Ha nuovi progetti? 
«Ho in programma un film, ma non sulla rivoluzione, non voglio sfruttare il momento: è ancora tutto troppo caldo. Quando ho scritto le prime cinquanta pagine di Persepolis le ho rilette e rivisto la stessa rabbia delle guardie della rivoluzione. Mi sono fermata per prendermi la giusta distanza». 
Di questi sei mesi, c’è un’immagine che ha nel cuore? 
«In un video ho visto un vecchio signore di un villaggio curdo che diceva: “Se vuoi essere un vero uomo, sii una donna”».


(Corriere della Sera, 15 marzo 2023, apparso con il titolo «Iran, sei mesi di proteste. Marjane Satrapi: “I leader futuri sono in prigione, a Evin”»)

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