13 Settembre 2020
il Messaggero

Marta Cartabia: “Diversità e pluralismo la ricchezza del diritto”

di Franca Giansoldati


Gli scatoloni sono ormai pronti. Destinazione Milano. Marta Cartabia lascia il Palazzo della Consulta, dove è entrata trentenne, come assistente di studio, nel 1993, e poi è ritornata, nel 2011, a 48 anni, come giudice costituzionale nominata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Negli ultimi nove mesi, i suoi colleghi l’hanno scelta per guidare la Corte, prima presidente donna nella storia della Repubblica. «Un’assunzione di responsabilità enorme, non una medaglia al valore», dice in questa intervista al Messaggero, in cui fa il bilancio della sua lunga esperienza, prima di tornare all’insegnamento universitario, «Non è un ritirarsi in una dimensione privata – spiega – perché considero la cura e l’istruzione delle giovani generazioni il primo dei compiti pubblici». E cita Mario Draghi: «Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione». Ai giovani e al futuro Marta Cartabia guarda con incrollabile fiducia, richiamando però tutte le istituzioni a un impegno sociale: «Sostenere le energie positive emerse durante il lockdown in una prospettiva di ricostruzione a lungo termine».

Presidente, in questi nove anni la Corte è cambiata?

«La Corte è una solida istituzione di garanzia, ben radicata nel sistema costituzionale, il cui tratto distintivo, soprattutto negli ultimi anni, è il pluralismo. Le istituzioni sono pensate per durare nel tempo; sono sempre le stesse, ma la loro sensibilità cambia a seconda di chi ne fa parte. Quando arrivai, il collegio della Corte era più omogeneo e in quel contesto io ero un po’ un’anomalia; a tratti mi sentivo persino un po’ sola come unica donna nel collegio. Diversa per genere, generazione e geografia dagli altri giudici. Oggi la Corte ha una composizione diversificata e reputo che questa sia una ricchezza. Tanto per cominciare, le donne sono tre e l’ultima nomina del Presidente della Repubblica ha mantenuto questo numero. La Corte è più varia per genere, per età, per provenienza geografica e per estrazione culturale. Questo tratto è decisivo per un organo come la Corte costituzionale perché è solo dal pluralismo interno che può nascere una vera neutralità nel giudicare».

Qual è la sua idea di neutralità e, quindi, di imparzialità e indipendenza?

«C’è chi pensa che la neutralità si ottenga per sottrazione, spogliandosi della propria storia, dei propri valori e orientamenti culturali. Nella vita della Corte, la neutralità si ottiene invece per addizione e nel confronto di culture e provenienze diverse. E qui di culture e provenienze ce ne sono tante. Alcuni giudici, ad esempio, hanno avuto un passato politico e parlamentare. Può sembrare una contraddizione: chi fa le leggi poi ne giudica la legittimità costituzionale… Ebbene, tutto questo non è un problema, ma una ricchezza. Dentro la Corte, ma anche fuori, ognuno vede il mondo attraverso un punto di vista: ogni punto di vista illumina l’uno o l’altro degli aspetti dei problemi da decidere, gettando un fascio di luce. È nell’intrecciarsi dei vari fasci di luce che si delinea l’immagine nella sua complessità. Nessuno può conoscere da solo, occorre incrociare le prospettive. Come direbbe Hannah Arendt: «Nell’ascolto, faccio esperienza del mondo, ovvero di come il mondo appaia da altri punti di vista. In ogni doxa si manifesta il mondo». Poi, naturalmente, ci deve essere un punto di sintesi. Dopo aver ascoltato tutti e aver lavorato nel dialogo e con l’arte della persuasione, la Corte cerca di offrire la risposta più convincente e adeguata».

È qui che entra in gioco il ruolo del presidente?

«Il ruolo del presidente è saper cogliere il contributo di tutti mettendolo a frutto».

È stato facile per lei?

«No. È faticosissimo, ma entusiasmante. È più semplice affermare un punto di vista unilaterale che sintetizzare ciò che ha valore nel contributo degli altri, specie quando le visioni sembrano inconciliabili. Non si tratta di trovare una media matematica o un minimo comune denominatore. Il Presidente è un po’ come un direttore d’orchestra. Tiene la partitura, segna il tempo, il tono. Valorizza le singole voci, assicurando la coralità. Il mio obiettivo è stato mantenere l’armonia nel collegio».

C’è riuscita?

«Lo lascerei dire agli altri. Ho cercato di valorizzare i contributi di tutti. Come dice San Paolo: vagliare tutto e tenere ciò che vale».

Da cattolica, come ha conciliato la sua visione con il punto di vista laico degli altri colleghi?

«Non sono certo la prima cattolica ad entrare nella Corte (sorride). Ma mi chiedo: perché essere cattolico viene percepito da alcuni come un problema? Credo che ciò sia dovuto al fatto che spesso la fede è percepita come un sistema di regole e leggi che competono con quelle dello Stato. Ma questo non è il cristianesimo che ho conosciuto. Il cristianesimo che conosco è lo sguardo sulla persona raccontato nel Vangelo quanto Cristo incontra la prostituta, quando incontra Zaccheo, quando incontra la Samaritana o quando incontra il buon ladrone sulla Croce. È uno sguardo che comprende e valorizza appieno ogni aspetto della loro umanità, così che nel rapporto con quell’Uomo tutti si trovano a dare il meglio di sé. È uno sguardo che permette a tutti, laici e credenti, di trovare un terreno di incontro. Tracce di questo sguardo sulla persona si leggono in filigrana anche nei principi costituzionali».

Che cosa ha significato per Marta Cartabia, teorica del diritto, diventare giudice?

«Diventare giudice per un giurista significa imparare a guardare al diritto a partire dai problemi che si creano nella vita delle persone e nella vita sociale. Un caso giudiziario, in fondo, è un enigma da risolvere. Questa abitudine a guardare ai problemi e coglierne la vera natura reputo sia uno degli aspetti più interessanti di questi nove anni alla Corte, perché come dice Chesterton: “Il guaio non è non vedere le risposte, ma non cogliere l’enigma”».

Quest’esperienza l’ha cambiata?

«Essere giudice ti fa vedere le questioni in tutta la complessità delle situazioni reali e la realtà è sempre imprevedibile. Da qui vedi il diritto nel momento del suo impatto sulla vita delle persone. Essere giudice ti chiede di misurarti continuamente con ciò che non è giusto, dalla piccola e minuscola ingiustizia quotidiana fino ai drammatici risvolti di una legge che genera effetti inaccettabili. Svolgere la funzione giudicante richiede una disponibilità all’inquietudine, perché stare davanti alle ingiustizie mette inquietudine. Per questo non possiamo dimenticare le parole di Calamandrei: “Vogliamo dei giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”».

Oggi la Corte ha implementato anche la comunicazione. Perché?

«La comunicazione è parte fondamentale dei compiti della Corte. Il suo compito è custodire i principi costituzionali e il primo modo per farlo è coltivare una cultura costituzionale, raccontando il suo impatto nella vita delle persone. I valori costituzionali debbono mantenersi vivi nel tessuto sociale, se no diventano lettera morta, diventano cenere. Magari ceneri da adorare, come direbbe Papa Francesco, ma incapaci di incidere nella vita sociale».

Nonostante il lockdown, e la sua malattia, lei lascia un’impronta di modernità senza precedenti: udienze da remoto, App, processo telematico, podcast, firma digitale… Avete fatto un salto quantico.

«Il Covid ha richiesto a tutti di rinnovarsi per continuare ad essere se stessi. Anche la Corte, per continuare a svolgere i suoi compiti normali, ha dovuto mettere in atto un imponente processo di innovazione. Prima si lavorava solo su carta e in presenza. Col Covid tutto è cambiato: per esempio, gli avvocati – che vengono da ogni parte del Paese – non potevano più viaggiare per venire a depositare gli atti nella cancelleria della Corte: abbiamo dovuto attivare uno scambio elettronico di documenti; nel frattempo abbiamo impostato il processo telematico costituzionale che è a un buon punto di sviluppo e si chiamerà e-Cost. L’attività della Corte non si è mai fermata, neanche a Ferragosto. Abbiamo fatto udienze e camere di consiglio da remoto e alla fine non c’è stata alcuna flessione nell’attività della Corte: basta vedere il numero delle decisioni». […]


(il Messaggero, 13 settembre 2020)

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