di Gaia Piccardi
Cos’è l’immagine che ha su WhatsApp?
«Il musico del ritratto di Leonardo da Vinci. Mi sembrava coerente».
Massimiliano Pani, sessant’anni, figlio dell’amore – e del peccato – tra un grande attore sposato (Corrado Pani) e una grandissima cantante (Mina), nato nel ’63 quando il divorzio non c’era, compositore, arrangiatore, produttore.
C’è mai stato un momento in cui la musica non ha rischiato di diventare un mestiere?
«Papà era un primo attore della prosa. In vacanza con lui passavo infinite ore ad assistere alle prove dei suoi spettacoli, da Goldoni a Miller, da Shakespeare a Brecht e Ibsen. Spettacoli che anche solo nel vederli nascere ti tremavano i polsi per quanto era bravo. Ho capito subito che recitare non sarebbe stato il mio lavoro: non mi appassionava. Poi, un giorno, ecco che prova il Peer Gynt, che ha dentro tantissime musiche. Rimango folgorato dalle melodie. Ho sei anni».
Cosa la trapassa, esattamente?
«L’emozione, che può arrivare anche a un bambino a digiuno di tutto. La musica mi è entrata nell’anima e non ne è più uscita. Ho chiesto di studiarla, i miei mi hanno assecondato: in casa, con Mina, se ne ascoltava già tantissima. Mamma ha cominciato a consigliarmi, non solo cose della mia generazione. Da quel momento ho incontrato una ricchezza enorme. I primi amori? Chet Baker, Guccini, il tango di Piazzolla. Alla Basilica, lo studio di registrazione di Milano, mi mettevo in un angolino, mi facevo piccolo piccolo e ascoltavo, come l’apprendista nella bottega rinascimentale. Con Mina si saltava di palo in frasca, senza confini né limiti. Perché la musica non si divide in generi, si divide in bella o brutta».
Il primo 45 giri.
«A sedici anni scrissi con un amico, Valentino Alfano, due brani: Sensazioni e Il Vento. Sperimentavamo in cantina, come tanti ragazzi. Vittorio Buffoli, direttore artistico della Pdu, ascolta i nostri pezzi, non gli dispiacciono, li porta a mamma, che è sempre stata aperta alle collaborazioni con i giovani, vedi Blanco nell’album uscito da poco. Entrambi i brani entrano in Attila, disco del ’79. È iniziata così».
E come è proseguita?
«Con Piero Cassano, che in quegli anni si era separato dai Matia Bazar. Cassano, Mario Robbiani e Celso Valli sono stati la mia formazione. Piero mi vede seduto nell’angolino dello studio: so che vuoi fare l’autore, mi dice, ti do una cassettina di cosette da finire… La nostra collaborazione va avanti ancora oggi. Certo ammetto di avere avuto il vantaggio di imparare da gente che lavorava con Mina, cioè i migliori. Come Gianfranco Zola ragazzino, che al Napoli apprese le punizioni da Maradona. Grande scuola».
Primo 45 giri comprato.
«Due, ma erano cassette. Dark side of the moon dei Pink Floyd e La Casa del Serpente di Ivano Fossati. Li presi con la paghetta settimanale».
Come è fatta una bella canzone?
«Non va spiegata: devono capirla tutti, dal filosofo all’operaio, uomini e donne, grandi e piccoli. Deve far leva su sentimenti universali, trasversali, globali. Deve avere forte la musica, poi arriva il testo. I brani che hanno migliore il testo della melodia sono più poesie che canzoni. Poi c’è chi ha saputo coniugare tutto magistralmente. Battisti, Fossati…».
Una canzone che avrebbe voluto scrivere?
«Penso a Jobim, che è riuscito a scrivere musica raffinatissima arrivata anche alle massaie, connubio tra un altissimo livello musicale e la capacità di toccare la gente comune. Perché una canzone pop, o popolare, può essere alta. Fossati è stato un eccellente scrittore di musica e parole, ad esempio. E poi Giorgio Calabrese, paroliere genovese, un gigante. Ho scritto una ventina di canzoni con lui: quando incontri un fuoriclasse, lo riconosci».
Essendo stato generato da due fuoriclasse, Corrado Pani e Mina, parla con cognizione di causa.
«Mia madre e mio padre sono stati Roger Federer. Cioè hanno fatto sembrare semplici le cose difficilissime. Ma alla base c’è un lavoro enorme, uno studio ininterrotto. Gianni Ferrio, il musicista dietro Studio Uno e Teatro 10, è un altro Federer: il più grande arrangiatore italiano, con competenze e cultura musicale di livello mondiale, bravissimo a mantenere la linea drammaturgica di un brano. Scrivere un pezzo strano è facile; farlo alto e bello, è tutta un’altra storia».
In una vita di incontri straordinari, qual è stato il più straordinario fin qui?
«Mamma».
Troppo facile.
«In assoluto la personalità più affascinante in cui mi sia mai imbattuto. Papà diceva: ho lavorato con tutti i grandissimi ma di fuoriclasse ne ho conosciuti solo due, Carmelo Bene e Mina».
Scusi ma non ha mai avvertito un senso di inadeguatezza al cospetto di questi giganti?
«Detesto i figli d’arte: sono spesso dei piagnoni lamentosi. Per questo motivo ho scelto subito di non fare né l’attore né il cantante: era talmente lampante che non avrei mai avuto la personalità di papà e il genio di mamma, che ho rinunciato subito al confronto. Una battaglia persa. Ho capito immediatamente che non ero di quella pasta lì, impossibile superarli nel loro lavoro, quindi non ci ho mai sofferto. Però lo stimolo a migliorarmi l’ho sempre avuto».
Il talento di Mina, al di là della voce, qual è?
«Saper vedere le cose in anticipo. Mentre parliamo, Mina è prima con Blanco nelle radio e l’album è in vetta negli store digitali. Eppure non ha social e sono quarantacinque anni che non fa concerti e non dà interviste. È agli antipodi delle leggi della comunicazione mainstream. Abbiamo fatto un’indagine di mercato: il suo pubblico va dai 20 ai 35 anni, persone che non l’hanno mai vista dal vivo. Pagano le scelte fatte con coraggio, libertà e coerenza: la gente la segue per questo».
Scelte necessarie per la sua visione, certo, ma anche per il suo benessere psicofisico?
«Sì. Siamo venuti a Lugano perché voleva mandare noi figli alla scuola pubblica: a Roma o Milano non sarebbe stato possibile. La polemica sulle tasse è assurda. Negli anni ’70 le tasse in Italia non le pagava nessuno. Mina è andata in Svizzera per poterle pagare, perché aveva bisogno di sentirsi una persona normale. Chi dice il contrario non ha capito nulla di mia madre».
Quando ha intuito che era ora di ritirarsi?
«Quando ha capito che la tv di qualità eccelsa che faceva stava cambiando. Impossibile mantenere quel livello qualitativo. La Emi le rescinde il contratto? E allora Mina fonda con il padre Giacomo (Mino) una sua etichetta di famiglia, la Pdu, e si concentra solo ed esclusivamente sul produrre dischi come e quando vuole lei. E comincia il lavoro di distruzione della sua immagine. Vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga, si traveste: diventa scimmia, culturista, donna barbuta, papera. Ribalta le leggi dell’industria e va avanti imperterrita per la sua strada, con tutti i rischi che una scelta così controcorrente comporta. Prima che per la voce, Mina ha vinto per la sua intelligenza».
Tutt’altro che artificiale. Ma intelligenza è un concetto largo: le qualità di quella di Mina?
«L’autocritica, l’ironia. Mia madre è la persona meno diva del pianeta. Mi viene in mente Sinatra, che ancora oggi è il più bravo di tutti ma non è riuscito a diventare altro dalla meraviglia di sé stesso. Mina è più forte del suo personaggio. Bevi il caffè insieme, guardi il telegiornale, lei dice una cosa e tu pensi: ma perché non ci ho pensato io? Sento i ragazzini dei talent ripetere: ah, io desidero essere me stesso. Ma tu chi sei? Tutti sanno tutto, nascono già imparati. La cosa brutta dei talent è che sono concepiti al servizio della tv: devono creare ascolto e vendere gli spazi pubblicitari. Non sono al servizio della musica. Ogni tanto, ci trovi anche uno che canta bene. E poi avanti il prossimo, con un meccanismo di una crudeltà assoluta. Ma Billie Eilish, per citare una brava, non è uscita da lì».
Lei, Massimiliano, a chi somiglia?
«Gli occhi azzurri, miei e dei miei due figli, sono di papà. Edoardo è più Mazzini: alto come il nonno, di poche parole, super-ironico tipo Mina. Axel, padre di Alma e Corrado (quindi io sono nonno e Mina bisnonna!), è più ramo Pani: espansivo con chiunque».
Crede nel destino?
«Daniel Barenboim dice che la musica è come il sonno: di giorno non ti serve, ma prova a stare senza. Avrei potuto fare un altro lavoro, non è successo. Credo nei mestieri di famiglia, dal notaio, al panettiere, al musicista. Tornando indietro cercherei di non rifare certi errori: a volte non ho letto nel modo giusto la vita. Ma se rinascessi mi riavvicinerei alla musica, comunque».
Il 23 agosto 1978, all’ultimo concerto di Mina alla Bussoladomani, lei c’era?
«Avevo quindici anni, è stato l’unico concerto di mia madre che ho visto dal vivo».
Cosa ricorda con più vividezza?
«L’impatto della sua personalità sul pubblico: finiva una canzone e la platea esplodeva, faceva un gesto e la gente ammutoliva, stregata dalla sua dimensione emotiva. Si erano tutti, dal primo all’ultimo, consegnati a lei, officiante di un rito collettivo. Impressionante».
Una forma di potere e una possibile fonte di assuefazione. Serviva un’anima evoluta per rinunciare a tutto ciò.
«Sicuramente serviva un’anima libera. Lady Gaga, che trasuda talento da ogni poro, ha visto le cover di mamma ed è impazzita. Liza Minnelli sostiene che Mina sia la più grande cantante del mondo. Mamma ha fatto le sue scelte in coscienza e follia, senza cedere alle lusinghe dell’ego, dell’ambiente e del pensare comune. Non ama i vestiti né i gioielli, non è un’accumulatrice di oggetti: a Lugano vive nello stesso appartamento dal ’77. La verità è che Mina non è una cantante, è un’intellettuale. Ha rinunciato a tutto, anche a una montagna di soldi, con una serenità che tutt’oggi le invidio».
(Corriere della Sera, 13 maggio 2023)