3 Marzo 2024
la Repubblica

Mi ha salvato un bambino immaginario

di Benedetta Tobagi


Un amore tossico, violenze psicologiche, gelosia morbosa e umiliazioni Poi la folgorazione: l’idea di un figlio nelle mani di un uomo del genere La forza di andare via e quella di ricominciare. Con grande fatica


Avevo poco più di vent’anni, il mio ragazzo di allora una trentina. Era un tipo all’antica: voleva sposarmi, diceva (con gli occhi lucidi e uno sguardo vulnerabile capace di farmi dimenticare ogni altra cosa), voleva dei figli da me. In una delle tante notti insonni, gli occhi fissi sulla parete bianca accanto al letto della mia stanza in affitto, la folgorazione: «Un bambino nelle mani di un uomo del genere? Mai». Non l’avrei permesso. Io non valevo niente, non meritavo niente. Ma non potevo condannare una creatura innocente all’inferno in cui mi ero cacciata. Pochi giorni dopo, l’ho lasciato.

È stata la mia prima storia importante, durò meno di un anno, ma ne uscii annientata. Il mio Barbablù si mostrava maturo, colto, aveva una professione che lo faceva viaggiare, ma anche una gran cultura musicale, la passione per i film e la fotografia. Mi ero sempre sentita vecchia, dentro, ma lui era un uomo. Mi sentivo diversa, “pesante”: per lui ero speciale. Nel suo desiderio, nell’obiettivo della sua reflex, mi sono vista, per la prima volta, bella. Nei ritratti dei primi tempi rivedo una giovane donna innamorata che gli sorride. Felice, ignara.

È stata una storia di violenza psicologica (che è violenza lo stesso, anche se più difficile da dimostrare). Me ne sarei andata prima, se mi avesse picchiata? Non lo so. Mi aveva drogata: di passione, di attenzioni. Qualunque sia la tua dipendenza segreta, il predatore ha un fiuto infallibile. Ti stordisce abbastanza da impedirti di capire cosa sta succedendo. L’inferno arriva in fretta. La gelosia morbosa. I commenti sprezzanti. Le umiliazioni. Gli sbalzi d’umore. Gli scoppi di rabbia improvvisi — ricordo quelli, soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare. A scatenarli poteva essere qualunque cosa, ma era sempre colpa mia. Ero io a distruggere l’armonia. Ma lui, misericordioso, perdonava. Stop, rewind, favola, noi due soli ovviamente (gli amici, come da manuale, allontanati). Se mi arrabbiavo, mi faceva sentire in colpa. Ma ho smesso presto. Ero una brava bambina, fino al midollo. Zitta, buona, ho cominciato a strisciare sul fondo, per la mia dose di quella cosa tremenda che chiamavo “amore”.

Poco prima della fine, nella panetteria di un piccolo paese, lui discute con donna al banco, poi ordina anche per me. La donna ci guarda, mi dice: «E tu non ce l’hai la lingua?». Gentile, senza giudizio. Aveva capito tutto. Provo vergogna mista a sollievo. Tante volte, dopo, avrei voluto ringraziarla. Tu stai zitta perché ti vergogni, non ti fidi di te stessa, hai paura. E spesso, intorno, c’è una tribù che vede, ma tace, purtroppo. Per conformismo, per connivenza, per evitare grane. Ma ogni parola, ogni sguardo di riconoscimento, può essere la boccata d’ossigeno che ti rianima, la piccola luce in fondo al tunnel: tenetelo a mente, vi prego. Prima del bambino immaginario, io ho avuto F., amica dai tempi del liceo, la più lucida, che ha avuto il coraggio di scrollarmi: Non mi piace come ti tratta, stai attenta, vattene. Parole di amore vero, quello che vuole il tuo bene, a costo di rischiare la lite. Non ero ancora pronta, ma sentivo la differenza: ha scavato un pezzetto della mia via di fuga. F. è ancora uno dei tesori della mia vita e continuiamo a essere testimoni l’una dell’altra, nella gioia e nel dolore.

Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola. Niente di evidente, temevo che lui si sarebbe infuriato o avrebbe riso di me. La notte battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo. Al primo tuffo in mare, l’acqua salata mi tradisce, rivelando i geroglifici rossi sulla pelle. Vedo il suo sguardo compiaciuto. La sua droga era quel potere, credo. Quando l’ho lasciato, infatti, non mi ha più cercata. Ero diventata inutile. Sono stata molto fortunata, solo col tempo ho capito quanto.

Poco dopo, gli aerei entrano nelle Torri gemelle, io sono stesa sul letto e non sento niente, penso solo che il fuori somiglia al dentro. Ho attraversato una lunga depressione. Ma la mia “disperata vitalità” premeva sotto traccia. Lavoravo. Ho finito l’università. Ero così spaventata da quel che avevo lasciato accadere che mi sono trascinata in terapia e la mia dottoressa mi ha salvato la vita. Di nuovo, sono stata fortunata: me la sono potuta permettere. Quante donne non hanno i mezzi e non trovano aiuto nella sanità pubblica? Barbablù era solo un simulacro, lo avevo scambiato per amore perché era ciò che, in diverse forme, conoscevo. La mia radice era un buco nero, il buio di mia madre. La mia intoccabile madre vedova, per cui avrei fatto tutto, da cui avrei accettato qualunque cosa. Come donna, invecchiando, ho imparato a guardarla con compassione. Come figlia, ho dovuto imparare a essere ferma e lucida nel fissare i confini e fortificare gli argini. Alcune grandi scrittrici avevano già trovato parole anche per me. All’inizio, il mio romanzo- talismano è stato Malina di Ingeborg Bachmann, con le sue cronache di assassinii dell’anima; di recente, ho ritrovato con emozione la mia verità di figlia in Lontananza di Vigdis Hjorth. Il bambino immaginario era anche la me stessa che doveva rinascere. Il dolore di qualunque parto è grande. A volte pensi che potrebbe ucciderti. A volte vorresti cavarti gli occhi come Edipo pur di non vedere la cruda realtà del passato. Andare alla radice del problema spesso comporta grande solitudine: per il mondo da cui ti allontani sei pazza, sei malata, sei cattiva e bugiarda. La verità brucia molti ponti. Puoi essere cancellata dalle persone che amavi, dalla tua stessa famiglia, perché hai rotto il patto del silenzio della tribù. Le maledizioni, in questi casi, sono un ottimo segno: sei sulla strada giusta. Ti aspetta la navigazione in mare aperto, un mondo nuovo. Allora potrai trovare la tua famiglia oltre il sangue, in cui amare e amarti (queer o no, come preferite). Sulla strada, servono testimoni: puoi trovarli nell’amicizia, in terapia, nei libri, nell’incontro con altre sopravvissute. Persone che conoscono e riconoscono le dinamiche perverse. Le loro parole sono il luogo in cui specchiarsi e trovare forza e conforto — che è poi il senso di questo progetto. Unite. Come una popolazione di donne dispersa che si ritrova attorno a un fuoco, seguendo il richiamo lontano dei tamburi.

“Gli sbalzi d’umore, gli scoppi di rabbia improvvisi Ricordo quelli soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare” “Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo”


Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla. L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli.


(la Repubblica – Il corpo delle donne/8. Le scrittrici denunciano la violenza di genere, 3 marzo 2024)

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