A cura della redazione Cronaca
Tre ciotole, l’ultimo libro di Michela Murgia, esce il 16 maggio. Il primo racconto si apre con la diagnosi di un male incurabile. Ed è una vicenda autobiografica in modo “pedissequo”, spiega la stessa Murgia in un’intervista al Corriere della Sera. Perché l’autrice di Accabadora, la vincitrice del premio Mondello, la barricadera di Istruzioni per diventare fascisti e Stai zitta, la cronista impegnata di Il mondo deve sapere, la cattofemminista di Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, God save the Queer. Catechismo femminista, ha un tumore al quarto stadio, uno stadio da cui “non si torna indietro”. Sta per morire, sottolinea. Le restano pochi mesi. E ha deciso di raccontarlo. Spiegando che «le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello». Racconta anche che «il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
Nel libro Tre ciotole la protagonista di uno dei racconti rifugge la definizione di tumore come appunto di qualcosa di alieno, da combattere, «perché non mi riconosco nel registro bellico. Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno». E in più «non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».
Murgia racconta anche della sua passione per il coreano e la Corea. Nata in un momento di estrema difficoltà e di depressione, seguito allo shit storm che le si era scaraventato addosso quando, all’inizio del lockdown, in una trasmissione televisiva, aveva criticato la retorica di guerra costruita intorno a quella malattia, «l’uso del registro lessicale militare e dei simboli bellici – medaglie, armi e divise – nella comunicazione della gestione dell’emergenza covid», la stessa che la infastidisce anche oggi rispetto alla malattia che le vive accanto. L’attacco fu violentissimo e nessuno la sostenne, alcuni ritenendo di avere troppo pochi follower rispetto a lei da non avere in fondo nessuna voce.
A tirarla fuori da quella situazione fu il video della star coreana Kim Tae-hyung dei BTS che si accascia sul red carpet: era l’aprile del 2021. Casca e un suo compagno di band per non lasciarlo solo si accascia insieme a lui, come lei stessa ricorda in un suo articolo: «In quei sette secondi di video i BTS hanno messo in atto una consapevolezza comportamentale di cui avrei avuto estremo bisogno nella mia vita: il fatto che nessuna persona possa rimettersi in piedi al tuo posto non le impedisce di inginocchiarsi al tuo fianco. Quel video mi dimostrava che davanti alla fragilità non esiste solo la risposta dei rapporti di forza, dove sei costretta a chiederti chi è più potente, chi lo è meno, chi può aiutare chi e chi non può farlo. Esisteva da qualche parte nel mondo anche la categoria della parità fragile, della capacità non innata di flettersi insieme allo stesso vento finché il vento non passa, durasse anche solo i pochi secondi di un calo di pressione davanti ai fotografi».
Michela Murgia racconta poi che si è preparata a quella che sarà: si sposa ma non «solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono». E si sposa con «un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere». Ha comprato una casa con dieci posti letto «dove stare tutti insieme» io e «la mia queer family» cioè «un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli».
Non ha paura della morte, Michela Murgia, anche se annuncia che la visiterà entro poco. «Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio», dice. «Perché il suo è un governo fascista. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».
Proprio su questo aspetto ha risposto la premier Giorgia Meloni: «Apprendo da una sua lunga intervista che la scrittrice Michela Murgia è affetta da un bruttissimo male. Non l’ho mai conosciuta e non ho mai condiviso le sue idee, ma voglio mandarle un abbraccio e dirle che tifiamo per lei. E io spero davvero che lei riesca a vedere il giorno in cui non sarò più Presidente del Consiglio, come auspica, perché io punto a rimanere a fare il mio lavoro ancora per molto tempo».
(la Repubblica, 6 maggio 2023)