5 Novembre 2021
il manifesto

Nel Talebanistan attiviste e giornalisti non si vedono più

di Giuliano Battiston


Mazar-e-sharif – «Non c’è più spazio per la società civile. Guarda cosa è successo a Foruzan Safi». Fardin Nawrazi faceva il giornalista. Poi sono arrivati i Talebani e ha cambiato vita. «Guardami: ho cambiato perfino il modo di vestire. La cravatta non la metto più. E il cappello tradizionale non lo mettevo mai, prima. Sono un’altra persona ora».

Di esporsi pubblicamente con un giornale straniero non ha paura. «I Talebani sanno cosa ho fatto, chi sono. Ma mi faccio vedere meno in giro. E soprattutto non faccio più il mio mestiere, che amavo».

Ha lavorato per anni come giornalista freelance, per radio, siti, giornali, tv locali e non solo, nella provincia di Balkh, di cui Mazar-e-Sharif è capoluogo. Era il responsabile per l’intera area settentrionale del Paese dell’Aija, l’Afghanistan Independent Journalists Association, l’associazione dei giornalisti indipendenti.

«Noi freelance siamo stati fregati, qui a Mazar: sono stati evacuati i pezzi grossi, i direttori delle testate, quelli con gli agganci giusti, noi rimaniamo qui. C’è chi ha portato via parenti e amici, anziché i colleghi, come avrebbe dovuto. Abbiamo scritto lettere su lettere, inviato email a chiunque, all’estero, ma nessuno ci ha dato aiuto, nessuno ci dà retta. Forse qualcuno può aiutarci, dall’Italia?». Qui, continua Nawrazi, «è pericoloso per ognuno di noi, uomini e donne». E non si può più lavorare, a meno di accettare le condizioni imposte dall’Emirato islamico.

«I talebani pretendono di vedere e controllare ogni singola notizia prima della pubblicazione. Non c’è più informazione, non c’è più libertà d’espressione», sostiene Nawrazi. «Slogan su slogan, nient’altro che slogan, ecco cosa facciano sulla rete televisiva nazionale».

A parlare è un altro giornalista. Anche lui ci invita a guardare il suo vestito. Anche lui ha cambiato stile. Ma al contrario di Nawrazi è rimasto al suo posto, alla tv nazionale. «Prima c’era qualche forma di indipendenza, di libertà, c’erano programmi diversi, più critici. Ora siamo sotto la responsabilità del ministero della Cultura. Non facciamo che ripetere slogan, solo slogan», spiega mentre camminiamo nel caotico mercato cittadino. Il suo nome preferisce non darlo. «Le notizie vere non si danno più».

Le informazioni viaggiano sui canali privati. Tra i telefoni degli attivisti e delle attiviste rimasti a Mazar-e-Sharif. C’è chi praticamente non esce di casa dalla presa del potere dei Talebani, a metà agosto. Chi ha preferito trasferirsi a Kabul, dove non è conosciuto o conosciuta. E poi c’è chi sparisce per giorni. Per essere ritrovata morta.

È il caso di Foruzan Safi, quasi trent’anni. Attivista, piuttosto conosciuta in città per il suo impegno, con particolare attenzione ai diritti delle donne, oltre che per le sue lezioni universitarie e per aver sostenuto la manifestazione che si è tenuta a Mazar-e-Sharif il 6 settembre scorso e alcune successive, online.

I Talebani allora hanno lasciato che la manifestazione arrivasse dalla sede del Consiglio provinciale al santuario di Hazrat Ali, in pieno centro. Poi hanno seguito alcuni manifestanti. Dei trentacinque fermati, cinque sono rimasti in carcere. Uno di loro per 14 giorni. «I primi sei senza acqua né cibo. E tante botte».

La notizia della sparizione di Foruzan Safi circolava da giorni in città. «La mamma di Foruzan mi ha chiamato: era preoccupata perché la figlia non rientrava a casa da due giorni», ci racconta un’altra attivista. Ventisei anni, è tra quante preferiscono non farsi vedere in giro, da ben due mesi e mezzo. Accetta di incontrarci, ma in un luogo sicuro, nell’appartamento in cui vive con la famiglia.

«Sono un’attivista per i diritti delle donne. O almeno lo ero. Andavo nei distretti rurali a spiegare perché bisogna combattere per i diritti delle donne, contro la violenza sulle donne». Abituata a esporsi, lo ha fatto anche pochi giorni prima che i Talebani prendessero il potere.

Alla madre di Foruzan Safi, che abbiamo contattato ma che ha preferito non incontrarci, questa giovane attivista non ha saputo dare notizie. Il corpo della figlia è stato ritrovato due giorni fa, pare insieme ad altri tre corpi di donne, in un’area periferica della città. «Chi è stato a ucciderla? Lo sappiamo tutti, ma nessuno può dirlo pubblicamente. Altrimenti fa la stessa fine».

Per gli attivisti di Mazar-e-Sharif, i responsabili sono chiari, anche se questi omicidi mirati – non gli unici nel Paese – non sono rivendicati. Servono a mandare segnali inequivocabili. Come la prigione per gli organizzatori della protesta pubblica di settembre.

«Dopo di allora, nessun’altra protesta. Certo ci sono quelle online, ma è un’altra cosa», continua l’attivista 26enne, che preferisce rimanere anonima.


(il manifesto, 5 novembre 2021)

Print Friendly, PDF & Email