10 Luglio 2011
il manifesto

Nessuno tocchi Ofelia

 

Nel rapporto sessuale, anche a pagamento, può esserci violenza. Screditare la vittima è la tattica difensiva dei processi per stupro

di Ida Dominijanni, Manuela Fraire

 

 

Giustamente Luisa Muraro, sul manifesto del 5 luglio, chiede di tenere aperta
la discussione sul modo in cui questo giornale (in compagnia di molti altri, in
Italia e nel mondo, ma questo non è un alibi) ha registrato la «svolta» di
pochi giorni fa nell’affare Strauss-Khan: assumendo che la scarsa credibilità
attribuita dagli inquirenti a Ofelia, al secolo Nafissatu Diallo, a causa dei
suoi precedenti di vita, vanifichi automaticamente la credibilità delle sue
accuse all’ex presidente dell’Fmi, e avallando il ribaltamento di Strauss Khan
da presunto colpevole di stupro a vittima delle menzogne della cameriera o/e di
un complotto dei suoi avversari.
Sulle cautele garantiste che sarebbero necessarie rispetto all’inchiesta (in
quali condizioni e in quale lingua è stata interrogata Ofelia? le incoerenze
del suo racconto sono menzogne o contraddizioni?, eccetera) ha già scritto con
cognizione di causa Nancy Bailey (il manifesto, 4/7) e non c’è bisogno di
tornarci. Bisogna invece tornare su due punti che dopo mezzo secolo di
femminismo dovrebbero essere punti fermi, e che invece nella discussione sul
caso Strauss-Khan, troppo viziata dalla «guerra culturale» tra Francia e Usa e
dalla preoccupazione per i destini di un potente della terra, rischiano
continuamente di saltare.
Il primo: può verificarsi violenza all’interno di un rapporto sessuale
iniziato consensualmente? Il secondo: può una donna che abbia mentito su alcune
circostanze della sua vita essere credibile quando afferma di aver subito una
violenza sessuale?
In entrambi i casi la risposta è sì. Il principio per cui una donna deve poter
sottrarsi a un rapporto sessuale in qualunque momento lo percepisca come
violento, e non può essere costretta a continuarlo, dovrebbe essere sempre
tenuto presente nella valutazione di casi come questo. I rapporti sessuali a
pagamento non costituiscono un’eccezione a questo principio: basta ascoltare o
leggere ciò che le prostitute dicono di sé per sapere che la contrattazione
dettagliata delle prestazioni è la loro prima tutela dalle derive violente
della sessualità dei loro clienti. Invece, uno dei presupposti impliciti più
sorprendenti delle reazioni innocentiste o complottiste sul caso DSK è l’idea
che – posto e non concesso che Ofelia si sia prostituita o che sia entrata in
quella stanza al posto di una prostituta attesa da Strauss Kahn – con una
prostituta, anzi a una prostituta, sia lecito fare di tutto.
Passiamo al secondo punto. In tutto il mondo, da un paio di decenni in qua, i
trucchi, i misfatti e la doppia e tripla morale della sessualità maschile sono
messi in questione dal fatto banale che le donne parlano. Prima tacevano,
complici o sottomesse, e coprivano gli uomini. Adesso parlano, e, come si dice,
li sputtanano. Parlano tutte, donne perbene e donne permale, le permale con
maggiore spregiudicatezza, vivaddio, delle perbene. E sputtanano tutti, comuni
mortali e potenti della Terra, i potenti della Terra con maggiori ragioni,
vivaddio, dei comuni mortali.
Sarebbe bene guardare a questo fatto, da sinistra, senza lenti opportuniste
(nel caso di uomini «amici», vedi DSK) o moraliste (nel caso di «nemici», vedi
Berlusconi): il fatto è politico e si chiama fine del patriarcato, ovvero di
quel sistema socio-simbolico basato sul silenzio-assenso femminile al dominio
maschile. Diventa decisiva, di fronte a questo fatto, la seguente questione:
quanto e quando conta la parola di una donna? Quali sono le condizioni perché
sia credibile? È credibile solo se la sua vita è immacolata, se ha sempre
pagato le tasse, se non ha mai preso una multa, se è una brava madre, se da
piccola faceva bene i compiti, insomma se è una vittima casta e una cittadina
in regola? Se Ofelia ha mentito per ottenere il visto americano, mente di
conseguenza anche quando accusa Strauss Kahn di averla violentata? Qual è il
supplemento di credibilità che a una donna si richiede ogni volta che prende
parola pubblicamente? E perché in una sfera pubblica in cui gli uomini pubblici
mentono sistematicamente, e sistematicamente vengono esentati dai criteri di
verifica del vero e del falso, alle donne si richiede sempre un supplemento di
credibilità?
Vale la pena di ricordare che lo screditamento delle testimoni ha accompagnato
tappa per tappa, in casa nostra, il Berlusconi-gate: Veronica era instabile e
aveva un amante, Patrizia era una millantatrice, Ambra e Chiara sono manipolate
dalla loro avvocata, Ruby è stata graziosamente invitata dal premier a fingersi
pazza: con o senza il sospetto di violenza sessuale per lo mezzo, il
dispositivo simbolico di screditamento della parola femminile è lo stesso.
Ma nel caso Strauss Kahn c’è qualcosa di più. A differenza di Berlusconi,
Strauss Khan tace. Per tattica difensiva, ma non solo. Lo stesso collasso della
parola che lo porta ad agire una sessualità padronale, che si annette
imperialisticamente il corpo dell’altra, diventa l’arma finale del padrone del
senso, che si esenta da ogni spiegazione annullando col silenzio il balbettio
dell’altra. La parola contraddittoria di lei contro il silenzio monumentale di
lui, il corpo oscurato di lei contro il corpo «rasato ed elegante», come lo
descrivono le cronache, di lui. Sono davvero infinite le astuzie del primato
del fallo.
Infine. Lo screditamento di Ofelia e l’assoluzione mediatica di Strauss Kahn
avvengono mentre restano inalterati tutti gli elementi indiziari raccolti sulla
scena del presunto stupro. Rivediamoli: «abbondante materiale biologico» di lui
sul corpo di lei, ferite nelle parti intime di lei, il collant strappato, il
legamento di una spalla rotto. Aspettando l’esito del processo sarà lecito
porsi ancora qualche impertinente domanda di fronte a questo film girato al
Sofitel di Manhattan, e con ancora in testa quello girato in Italia nelle
location del presidente del Consiglio, senza violenza presunta ma con tanto di
bunga-bunga e statuette priapiche adorate a mo’ di totem. Che cosa fa sì che
oggi, nelle democrazie occidentali, il sesso e il potere si uniscano secondo
questa etica e questa estetica? Che cosa lega all’esercizio del potere la
pratica di una sessualità perverso-polimorfa, più infantile che virile? Che
cosa associa all’esercizio del potere il disprezzo vendicativo del corpo
femminile?
Intervistato da Gad Lerner su analoghi punti in una recente puntata de
«l’Infedele», Marco Revelli ha risposto sostenendo che negli ultimi decenni è
cambiato il potere, si è incattivito e involgarito. Si potrebbe tuttavia con
buoni argomenti sostenere che a essere cambiata è la sessualità maschile.
Attenzione: non perché la scena del Sofitel o quella di Arcore siano
emblematiche di un dispositivo sessuale maschile generalizzabile, ma perché la
rappresentazione pubblica che gli uomini di potere danno, o avallano, o
ostentano, della loro sessualità rinvia, come tutte le rappresentazioni, a un
non-rappresentato, a un fuori-scena, a un non detto di cui troppo poco
sappiamo. È il non-detto del sesso che emerge nel segreto del setting
analitico, disegnando tutt’altre sceneggiature da quelle del Sofitel o di
Arcore: un desiderio maschile spento, un desiderio femminile tacitato dal
collasso dell’oggetto d’amore. Qui il potere sfuma nell’impotenza, e il piacere
si arrende al godimento. Con quali conseguenze per il rapporto sociale e
politico fra donne e uomini?
Spetta ancora a noi donne cercare risposta a questa domanda. Se oggi la parola
di Ofelia, per quanto controversa, è sulla scena e non più fuori-scena, lo si
deve a mezzo secolo di presa di parola femminile sulla sessualità e sui suoi
riflessi nella sfera pubblica. A questa presa di parola resta affidata la
possibilità di tenere aperta una postazione dalla quale possa prendere corpo,
per donne e uomini, una sessualità non imprigionata nella trappola fallica, e
possa parlare un godimento non sottomesso alla pulsione di morte. Diversamente,
a restare stritolata fra una vittimizzazione casta e una cittadinanza in regola
non sarà solo la parola di Ofelia, ma anche la nostra.

(Il Manifesto 10 luglio 2011)

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