5 Novembre 2023
il manifesto

Non c’è nessuna contraddizione nel condannare Hamas e Netanyahu

di Lia Tagliacozzo


Ecco, ci risiamo, come una sorta di riflesso pavloviano con la guerra tra Israele e Hamas, ancora una volta, gli indicatori dell’antisemitismo salgono. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e il suo Osservatorio antisemitismo lo evidenziano: «L’incremento è enorme – spiega il direttore Gadi Luzzatto Voghera –. Solo in queste ultime tre settimane abbiamo ricevute oltre 70 segnalazioni anche off line», dove off line sta per minacce dirette, malversazioni, scritte intimidatorie che travasano dal mondo virtuale per entrare nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nelle nostre università. A darne conto è anche la stampa: le pietre di inciampo vandalizzate a Trastevere, in pieno centro capitolino, una casa segnata con la stella di Davide di una donna ebrea a Milano, insulti e minacce telefoniche che si concludono con “Palestina libera”, abitazioni private segnate con la stella ebraica a Parigi, molotov contro una sinagoga di Berlino. «La provenienza è difficile da stabilire – prosegue Luzzatto Voghera – vengono utilizzati i simboli classici dell’ostilità antiebraica: svastiche, Hitler non ha finito il lavoro o, viceversa, siete peggio di Hitler».

Quando crescono le tensioni in Medio Oriente i venti di guerra arrivano anche qui, narrazioni tossiche inquinano la discussione pubblica. Nel frattempo, in Italia (e non solo), la percezione di solitudine si diffonde presso molti ebrei, soprattutto di sinistra, qualsiasi cosa «essere di sinistra» voglia dire. Molta destra è antisemita e razzista, la solidarietà a Israele strumentale all’incitamento dell’islamofobia e del razzismo volti a criminalizzare l’immigrazione: di questo il manifesto si è spesso occupato con firme importanti e autorevoli. Ma c’è dell’altro, qualcosa che una parte del mondo della sinistra non vuole proprio sentirsi dire: che esistono al suo interno narrazioni che ricalcano stereotipi antisemiti della matrice più classica accompagnata da un uso ridondante di avversative. Una sorte di afasia impedisce di dire che l’attacco del 7 ottobre compiuto da Hamas nel sud di Israele è un atto di terrorismo compiuto «not in our names», le affermazioni di condanna sono spesso seguite da un «ma» o un «però» che ne comprime, inevitabilmente, la portata. Arturo Marzano insegna all’Università di Pisa e si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele e del conflitto israelo-palestinese: «Anche io – spiega – sono tra coloro che usano gli avversativi. Condanno l’attacco di Hamas inequivocabilmente ma dico pure che, se dobbiamo condannare quanto avvenuto in Israele il 7 ottobre, dobbiamo anche inserire quanto accaduto nel suo contesto, che è quello dell’occupazione dei territori palestinesi, che dura dal 1967. Eppure sono in difficoltà, perché non voglio contribuire alla sensazione di isolamento che molti ebrei italiani e molta sinistra israeliana provano in questo momento. Per questa ragione, propongo una narrazione che comprenda la condanna dell’attacco di Hamas e la solidarietà per le vittime israeliane, la condanna per quanto le forze armate israeliane stanno facendo a Gaza e la solidarietà per le vittime palestinesi, e sia capace di denunciare insieme l’antisemitismo e l’islamofobia dilaganti».

A dare voce all’isolamento nei giorni scorsi c’è stato anche un appello di intellettuali israeliani – promotori Eva Illouz, sociologa e scrittrice; Aviad Kleinberg, storico, presidente del Ruppin Academic Center e lo scrittore David Grossman. Seguono firme di attivisti progressisti «impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani». «In questo momento – riporta il documento – più che mai, abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili da entrambe le parti». E concludono: «Insistiamo: non c’è contraddizione tra l’opporsi fermamente alla sottomissione dei palestinesi da parte di Israele e la condanna inequivocabile dei brutali atti di violenza contro civili innocenti. In effetti, qualsiasi uomo di sinistra coerente deve mantenere entrambe le posizioni contemporaneamente». La riflessione che la distanza dalla guerra possa quindi offrire la possibilità di uno sguardo terzo, non per questo neutro, necessario per restituire spazio alla politica sembra non avere senso e facoltà di parola o di ascolto.

Dove Marzano sottolinea la necessità di non perdere di vista il contesto dell’occupazione israeliana per comprendere quanto accaduto il 7 ottobre, Luzzatto Voghera osserva invece un’incapacità di declinare la complessità di quel conflitto: «Se nella sinistra istituzionale osservo grande cautela, quello che mi colpisce in maniera negativa è la percezione di qualcosa che cova nella sinistra intorno alle università e ai luoghi di produzione culturale: circolano volantini in cui magari non si nomina Hamas ma si strilla o si scrive ‘morte ai sionisti’, il ricorso frequente alla parola ‘genocidio’ con riferimento al popolo palestinese che ha valore oltre il suo contesto specifico perché funziona da attivatore della memoria della Shoah, a farne richiamo o comparazione».

«Nel linguaggio della sinistra italiana – prosegue a distanza Marzano – esiste ed è radicata l’endiadi Resistenza-Palestina che dura ancora dagli anni ’70: il rischio è che si finisca per giustificare qualsiasi cosa facciano i palestinesi mentre è necessario distinguere tra il diritto alla resistenza palestinese, che è legittima e va sostenuta, e gli atti di terrorismo come quello del 7 ottobre, che sono ingiustificabili e vanno condannati. «Ma – continua, aggiungendo una congiunzione avversativa dopo aver vissuto tre anni nei Territori dell’autonomia palestinese – bisogna sottolineare come l’ideologia di Hamas sia infarcita di antisemitismo, così come riconoscere che ne è pieno l’intero mondo arabo. La triade Stati Uniti, Israele, ebrei è molto spesso presentata facendo ricorso a retoriche cospirazioniste antisemite. Il che non vuol dire però che non si possano criticare le politiche del governo israeliano o essere antisionisti senza essere antisemiti. L’antisionismo non coincide tout court con l’antisemitismo». Luzzatto Voghera controbatte a distanza: «Il problema serissimo che nasce dopo il 7 ottobre è che i terroristi di Hamas hanno ucciso i sionisti ebrei: lo si sente in tutti i filmati. Ci si deve rendere conto che esiste una moderna ideologia islamista, attenzione non islamica piuttosto una distorsione contemporanea della teologia islamica utilizzata con lo scopo di prendere il potere, per questo è incomprensibile l’appiattimento sulla retorica di Hamas. Abbiamo visto ragazzi e ragazze urlare slogan che sono chiaramente antisemiti, Palestine will be free from the river to the sea: significa che Israele non deve esistere e questo è antisemitismo. Lasciando il beneficio del dubbio sul fatto che non abbiano capito gli slogan in arabo che incitavano ad aprire case e confini per uccidere gli ebrei».

Luzzatto Voghera prosegue sottolineando come il 7 ottobre sia un punto di non ritorno: «La prima ragione è che i primi 1.400 morti di questo conflitto – i ragazzi del rave e la gente dei kibbuzim – sono gli stessi che hanno marciato contro Benjamin Netanyahu, eppure i terroristi sono andati a colpire proprio loro, non quelli che potrebbero essere i loro nemici politici, sono andati a colpire gli israeliani che lavoravano per la pace, eppure questo non lo si è quasi letto. Il secondo elemento gigantesco è che Israele si è rivelato niente affatto invincibile, i grandi servizi segreti e il grande esercito di una certa retorica è stato nei fatti messo nel sacco e mostrato un’enorme vulnerabilità. Alla fine della guerra in Israele su questo dovranno fare i conti. Il terzo elemento di novità rispetto ad altri momenti di quel conflitto è che, con ogni evidenza, sia in Israele che tra i palestinesi ci sono leadership estremiste e inadeguate. Amos Oz diceva che, al termine di tutto, è con i nemici che bisogna fare la pace. Ma alla fine, con questi personaggi al potere, ci sarà qualcuno al quale interessi davvero fare la pace?».

Scrive Yuval Noah Harari, storico e protagonista del movimento democratico israeliano: «Coloro che in Europa hanno il privilegio di non patire direttamente il dolore, di non vivere sotto i missili e le bombe, di non sentirsi fragili […] hanno il dovere di tenere alta la bandiera della saggezza e della ragione». Un privilegio trasformabile in responsabilità.


(il manifesto, 5 novembre 2023)

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