8 Luglio 2021
il manifesto

Noor Abed, il canto della sopravvivenza

di Mariacarla Molè


Con il film Our songs were ready for all wars to come (2021) Noor Abed è stata coinvolta all’interno di School of Waters, la 19a edizione della Biennale del Mediterraneo ospitata dalla Repubblica di San Marino (fino al 31 ottobre), ispirata quest’anno alle pedagogie radicali e sperimentali, e al modo in cui possano intersecare ricerche artistiche e curatoriali tese a decostruire stereotipi legati alla prospettiva eurocentrica dell’area mediterranea.

Noor Abed è nata a Gerusalemme, è una filmmaker, artista multidisciplinare e performer. Nel suo lavoro indaga i processi e le condizioni di produzione della conoscenza in contesti sociopolitici differenti, sondando modalità critiche di formazione sociale. In questo senso la mitologia e l’immaginazione collettiva sono per lei strumenti con cui relazionarsi alla storia in una prospettiva che permetta di immaginare realtà differenti e narrazioni alternative.

A San Marino ha presentato un’opera in super-8: si compone di scene coreografate e musicate, basate su racconti storici popolari palestinesi, che hanno lo scopo di risvegliare storie dormienti della tradizione orale, e di porsi come strumento di emancipazione da parte di comunità e terre oppresse da egemonie neoliberali e coloniali. Noor Abed sarà a San Marino domani per realizzare la sua performance.

«School of Waters» ha molti punti di contatto con il progetto di Ramallah «School of Intrusions», una piattaforma educativa indipendente…

Quando ho letto la call ho avvertito una forte assonanza, soprattutto nell’idea di una conoscenza fondata su un luogo e una comunità, una conoscenza che riesca ad avere la fluidità dell’acqua. School of Intrusions (di cui è fra le fondatrici, ndr) condivide anche la necessità di muoversi per la città, introdursi in un contesto e diventare parte di esso. La presenza fisica dei corpi nello spazio e il movimento sono uno strumento di rivendicazione di territori, e School of Intrusions considera Ramallah come spazio che appartiene alla comunità. Per questo interagisce con la città in maniera spontanea e libera, con performance, camminate, ascolti e attività di scrittura e di lettura.

Può parlarci del lavoro portato alla Biennale di San Marino «Our songs were ready for all wars to come»?

La mia performance è ambientata in un villaggio a nord est di Gerusalemme non lontano dal posto in cui sono nata. Il luogo mi ha subito sopraffatta. Ci sono tornata spesso e ho iniziato a immaginare quella che avrebbe potuto essere la vita lì. Sto ancora facendo delle ricerche sulle sue origini. È citato nella Bibbia, l’area è antica, risale all’epoca romana e originariamente era usata come fonte idrica. Ho costruito la coreografia a partire da alcuni racconti popolari, e ho scritto io stessa dei miti relativi a quel luogo, ispirati principalmente ai riti della morte e della scomparsa. È un territorio molto arido adesso e il canto intonato dalla donna è qualcosa legato alla sopravvivenza. È il canto la forma della narrazione nel film e la performance è il medium.

I corpi dei performer a contatto con la terra, e il loro canto affidato alle buche degli antichi pozzi danno l’idea di un passaggio fluido tra il sommerso e l’emerso, tra il passato e il presente…

Volevo istituire nuovi rituali che potessero essere condivisi, a partire da una gestualità che appartiene alla vita reale, restituendo una narrazione che sia in grado di andare oltre quella binaria in cui è intrappolata la Palestina. La nostra storia del cinema ha inizio con quello militante degli anni ’50 e ’60 e con la rivoluzione in Libano e in Giordania: ci identifichiamo sempre con i rivoluzionari e con le vittime. Credo sia una prospettiva piuttosto limitata, sempre polarizzata e avverto la necessità molto forte di voler creare un altro tipo di immagine, che sia senza tempo. Spesso, infatti, non si riesce bene a collocare le mie opere nel tempo o a capire quando siano state realizzate.

La gestualità ripetuta torna anche in altre performance. È qualcosa che innesca un processo di trasformazione?

Ho dedicato al rapporto tra la ripetizione e la trasformazione un intero capitolo della mia tesi, in relazione alla costruzione e decostruzione dei significati. I riferimenti sono stati Gilles Deleuze e Pina Bausch. La ripetizione è importante nel processo di formazione sociale. È esattamente quello che accade nelle proteste: i movimenti sono ripetuti e sincronizzati, e solo così riescono a essere potentissimi. Sono interessata alla performance in relazione alla formazione sociale.

Se da un lato la ripetizione innesca la trasformazione, dall’altro c’è una grande capacità di resistenza nella fragilità.

Per me la resistenza deriva dalla vita quotidiana e da tutto ciò che facciamo ogni giorno, specie per chi come me arriva da paesi fortemente militarizzati e sotto il diretto controllo coloniale. Nei miei lavori, lo stare in un luogo e viverlo diventa un atto di resistenza. C’è resistenza nel modo in cui bevi, cammini, sogni. Senti che non tutto è così normale, soprattutto chi studia all’estero – come me – nota maggiormente questa differenza. Come puoi progettare la tua esistenza se non sai se al mattino riuscirai a bere il caffè o farti la doccia? È come se vivessi in uno stato permanente di sopravvivenza, è questa la modalità di esistenza, tarata su un grado zero di movimento del corpo. Non uso altri medium come scultura e pittura, il mio corpo è tutto quello che posso portare con me nel momento in cui devo andare.


(ilmanifesto.it, 8 luglio 2021)

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