18 Febbraio 2024

Oksana Karpovych: «Racconto la guerra in due universi paralleli»

di Cristina Piccino


Oksana Karpovych è nata a Kyiv, la sua biografia ci dice che vive fra la capitale ucraina e Montreal, dove si è laureata alla Concordia University in Film Production seguendo un’idea di ricerca che si concentra sulla vita quotidiana e sull’influenza dei cambiamenti politici nella sfera privata di ciascuno.

A partire da qui l’esigenza di lavorare sul conflitto nel suo Paese è del tutto coerente. Intercepted, come spiega lei stessa nella presentazione del film, nasce i primi giorni di guerra, mentre lavorava come producer per la crew di Al Jazeera in lingua inglese, cosa che le ha permesso di avere accesso a molti luoghi e di essere testimone delle violenze dei militari russi sul campo.

Nel frattempo i servizi segreti ucraini avevano reso pubbliche le intercettazioni delle telefonate dei soldati russi, per lo più conversazioni con le famiglie, e proprio da questo materiale si basa il film presentato nella selezione del Forum – da quest’anno diretto da Barbara Wurm. «Tra quelle telefonate e ciò che vedevo ogni giorno intorno a me c’era una enorme discrepanza, i russi sembravano molto più umani di come si comportavano con noi ucraini. Cercando una risposta ho provato a capire cosa c’è dietro questa invasione».

Quando ci incontriamo a Berlino Naval’nyj non era stato ancora ucciso e le notizie della ritirata ucraina a Avdiïvka, nel Donbass, di cui ci sono molte immagini nel film non erano ancora arrivate. Lei mentre parla spesso ha le lacrime agli occhi, e guardando Intercepted il paesaggio che attraversa, e che fa da controcampo alle conversazioni telefoniche dei soldati russi, restituisce una diffusa desolazione nella quale sembrano congelarsi i gesti anche più semplici del quotidiano. Le case saccheggiate, le campagne dove malgrado tutto i contadini continuano a mungere le mucche; i palazzi coi buchi dei proiettili e le strade che si spalancano su voragini. E una vita che scorre, malgrado tutto, con le persone sulla spiaggia o che fanno come possono le cose di sempre.

Se la guerra può essere più visibile o meno, le fratture che lascia sono oltre le sue evidenze nella violenza diffusa in cui sprofonda ciascuno. Le voci senza volto dei soldati russi dicono di una disillusione, della paura, del fatto che lì hanno trovato un paese “ricco” – e da casa gli chiedono di prendersi le New Balance e i vestiti per la palestra della figlia – dove la gente vive bene. Parlano di torture, morte, portano con sé l’indottrinamento del regime putiniano. C’è pure però chi rifiuta, chi è stanco; uno alla moglie chiede di promettergli che mai farà arruolare il loro figlio quando sarà cresciuto.

Come costruire allora la narrazione di una guerra, che come quella in Ucraina che è stata testimoniata, filmata, mediatizzata, e che specie nelle generazioni di artisti più giovani come è Oksana Karpovych, è un riferimento costante? «È per questo che sentivo il bisogno di realizzare le mie immagini. Dopo l’invasione ho deciso di rimanere in Ucraina, mi sono resa conto che quanto vedevo nei telegiornali e sui social media non restituiva ciò che stavamo vivendo».

Il punto di partenza per Intercepted sono le intercettazioni del servizio segreto ucraino che ha registrato le telefonate dei soldati russi. Come ha lavorato su questi materiali?

Ho iniziato ad ascoltare gli audio, erano accessibile in rete tranne qualche conversazione utilizzata nelle indagini sui crimini di guerra, che mi è stata mandata a montaggio quasi finito. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il film non avevo ancora sentito tutto, sapevo cosa mi interessava, ma dovevo ancora capire in che modo costruire la relazione fra le parole dei russi e le immagini dell’Ucraina. Non volevo che la parte visiva ne fosse un’illustrazione, avevo in mente più una giustapposizione ottenuta usando il suono. Ho scoperto che i russi non sanno molto dell’Ucraina, in tanti si dicevano sorpresi dalla qualità della vita nel nostro Paese; sembrano avere pochissimo accesso al resto del mondo, credo che subiscano un continuo lavaggio del cervello. Mi sembrava incredibile. Pian piano ho creato due realtà parallele in cui alle parole della guerra si contrapponevano le immagini di un tempo sospeso, scandito da una tensione costante. È stato un po’ come comporre un puzzle.

Come è stato per lei confrontarsi con le parole dei russi? Sembra mantenere una distanza.

La mia sfida è stata quella di lavorare su un processo parallelo fra le parole e le immagini. La distanza è parte del linguaggio, insieme a una certa neutralità del punto di vista, che è insieme molto soggettivo. Cerchiamo di non essere mai troppo vicini ai nostri soggetti, di non entrare nello spazio delle persone che è stato traumatizzato.

Per me ascoltare quei dialoghi è stato psicologicamente molto duro, il trauma che ho vissuto in Ucraina con la guerra si è amplificato nella crudeltà di quei dialoghi.

Non volevo però fare un film di propaganda, ho provato a guardare a quel materiale e un po’ alla guerra stessa come se fossi un osservatore, qualcuno che fa una ricerca. E senza manipolare gli audio. Potevo farne ciò che volevo, c’erano tanti modi di usarli ma da regista ho delle responsabilità; li ho lasciati come erano limitandomi a togliere le bestemmie.

Quanto la guerra ha cambiato la sua ricerca artistica, la sua visione delle cose?

La guerra in realtà c’è da dieci anni, è l’invasione russa che è iniziata due anni fa… A essere onesta non ho avuto un momento per fermarmi e riflettere, da allora a oggi ho lavorato a questo progetto che finalmente vede la luce.

Ho bisogno di tempo e di tranquillità per capire quello che è successo a me, cosa è cambiato. Dopo questo lavoro mi sento più motivata ad andare avanti, mi piacerebbe poter pensare a un processo di ricostruzione e di riconciliazione ma purtroppo non è così; non è tempo di riconciliarsi si deve ancora combattere.


(il manifesto, 18 febbraio 2024)

Print Friendly, PDF & Email