24 Aprile 2022
il manifesto

Partigiani per la pace dall’Atlantico agli Urali

di Luciana Castellina


Se ricordo bene, le variopinte bandiere della pace, inventate da un movimento molto più giovane della Resistenza, si sono sempre mischiate nelle manifestazioni a quelle rosse dei partiti cui gli iscritti all’Anpi hanno sempre fatto riferimento. E, portati dai sindaci di tante città, ai gagliardetti blu con le medaglie ricevute dai loro comuni per la partecipazione a quella lotta.

Quest’anno l’intreccio avrà un significato particolare perché stiamo vivendo un’altra drammatica esperienza che ha rinsaldato il legame fra associazioni pacifiste e associazioni partigiane. Nella comune convinzione che la guerra è sempre il sanguinoso sbocco di una pace fallita, un bagno di sangue che produce e sollecita altri orrori.

Perché la guerra è sempre brutta, finisce per indurre anche i giusti a compiere i gesti più ingiusti: la nostra parte, giusta per l’appunto, non ha forse finito per gettare la bomba atomica su Hiroshima o ammazzare migliaia e migliaia di abitanti di Dresda con bombardamenti che non smossero più di tanto i nostri cuori? Perché eravamo in guerra.

Non è un caso che quando in Europa si combatté, negli anni ’50, la prima battaglia di massa per la pace – in favore dell’appello ai 4 grandi possessori della bomba atomica perché si impegnassero a non usarla – quel movimento prese il nome di “Partigiani della pace”. E Picasso disegnò il suo simbolo, una bellissima colomba, a testimoniare quanto orrore per la guerra provava chi l’aveva combattuta e chi invece l’aveva conosciuta attraverso i racconti.

È stato, questo “ripudio della guerra”, come dice con un termine molto forte la nostra Costituzione, in contraddizione con il sacrosanto diritto dei popoli a difendersi dall’aggressore? O, peggio, una manifestazione di codardia, un tradimento morale di chi invece, come i partigiani nel ’43, le armi le ha impugnate? O non è piuttosto l’ammonimento a combattere contro tutte le aggressioni senza ricorrere alle armi, tanto più quando con ogni evidenza non riuscirebbero in alcun modo a porre fine allo scontro e rischierebbero anzi di innescare un tremendo conflitto mondiale? Le incredibili accuse di tradimento mosse all’Anpi, che oggi dice «No» all’invio di armi all’Ucraina, sarebbero un’offesa ai partigiani che hanno invece usufruito di quelle che furono loro fornite nel ’43?

Come non fosse evidente che quella guerra mondiale era allora esplosa già da quattro anni, che chi li aiutava era in campo dietro alla stessa trincea e il comune nemico era ormai quasi sconfitto. La Resistenza impedì che i ragazzi italiani fossero arruolati di forza nelle milizie fasciste e li fece invece diventare combattenti per accelerare la fine ormai visibile della guerra. La differenza non è da poco; allora le armi aiutarono ad accelerare la fine della guerra, oggi sono lo strumento che finirebbe inevitabilmente per farla divampare ovunque.

La “silenziosa seduzione” – come l’ha recentemente definita un editoriale dell’Avvenire – per indurci tutti a pensare che con le armi nelle mani dei ragazzi ucraini si potrebbe sconfiggere la Russia, e ove questo risultasse impossibile, che giusto sarebbe a quel punto il coinvolgimento attraverso la Nato di tutto l’Occidente – serve ad abituarci all’idea che la violenza è un’arma indispensabile. A far sfuggire ogni realistica consapevolezza che, anche solo per un gesto imprevedibile di qualcuno sul campo, sparasse energia nucleare da una delle armi tattiche, così immergendo il mondo in una guerra mai vista. Ignorare questo scenario è il micidiale imbroglio perpetrato ai danni dell’Ucraina e dell’umanità.

Perché Zelenski non ci dice – lui e i suoi tanti potenti alleati – come pensano di porre fine al massacro del suo popolo? 
«La priorità – ha detto il cancelliere tedesco Scholz – è impedire che la Nato vada a un confronto militare con la Russia». Finalmente uno che ragiona (la sua intervista allo Spiegel è stata quasi ignorata). Persino il suo vice “verde” lo attacca per questo.

E allora cosa bisognerebbe fare? Noi “ingenui irrealisti pacifisti” suggeriamo ai nostri governanti “realisti” di smettere di credersi a cavallo, in una battaglia risorgimentale per la patria, di capire che la guerra è oggi altra cosa, È più brutta. E più inutile. Serve, per difficile che sia, ricercare un dialogo, a tutti i costi, e dunque non dichiararsi felici perché la Nato è oggi più compatta: perché non servono i patti fra amici ma quelli coi nemici, come recitava lo slogan del movimento pacifista negli anni ’80.

E serve – se vogliono essere realisti – proporre un disegno del mondo che ponga fine all’arrogante pretesa dell’Occidente di poter fare tutto quanto proibiscono agli altri di fare (e si tratta di moltissime cose). Se il mondo fosse più giusto sarebbe più facile vincere una guerra contro l’orrenda aggressione russa all’Ucraina e trovare il sostegno del popolo russo nella campagna contro Putin. Serve meno, per liberarsene, minacciare di chiedere al tribunale dell’Aja di impiccarlo, anche se ne saremmo tutti felici.

Nella sua ultima enciclica, Fratelli tutti, papa Francesco ci ha ricordato di quando, nel pieno della guerra chiamata Crociate, ottocento anni fa, il santo di cui ha assunto il nome, ha preso il suo bastone e ha traversato tutti i Balcani per andare a incontrare il Sultano. Il nemico. Oggi i viaggi sono più facili, e si potrebbe fare di più.

Intanto tutti, Anpi, pacifisti, gli uomini e le donne di buona volontà, ognuno con la sua bandiera, alla marcia di Perugia e alle celebrazioni del 25 aprile. Stia tranquillo Provenzano, che mi dispiace assai, perché lo stimo, si sia unito al coro accusando l’Anpi e tutti noi di essere “equidistanti” fra Russia e Ucraina. La sola cosa sulla quale non siamo equidistanti, ma decisamente contro, è la Nato.

E l’Europa starebbe meglio se non ci fossero più basi militari dall’Atlantico agli Urali. Come avremmo potuto fare quando un bel pezzo di sinistra europea, socialdemocratica ma anche Berlinguer in Italia, chiesero di rendere politica concreta quello slogan. E ci fu chi non lo permise.


(il manifesto, 24 aprile 2022)

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