di Chiara Cruciati
«È strano veder arrivare condoglianze da tanti paesi, come se Raisi fosse stato un normale presidente regolarmente eletto. L’ambasciata italiana a Teheran ha espresso le sue condoglianze. Capisco la consuetudine politica, ma colpisce che chi dice di sostenere i diritti delle donne iraniane poi esprima dolore per un uomo che le ha oppresse».
Della morte di Raisi e di quanto si muove nella società iraniana abbiamo parlato con un’attivista femminista iraniana, in condizione di anonimato. Attiva fin dal 2006 nel movimento per i diritti delle donne e poi nel movimento verde seguito alle elezioni del 2009, nel 2013 ha partecipato al lancio della campagna sul diritto delle donne a entrare negli stadi per poi diventare attiva nella rete di movimenti femministi mediorientali.
Cosa ha rappresentato Raisi per l’Iran?
Credo sia utile tornare al gennaio 2020, quando fu abbattuto l’aereo ucraino sopra i cieli di Teheran e furono uccise quasi duecento persone. Il regime mentì per due giorni per poi ammettere la responsabilità. È stato un punto di svolta per moltissimi iraniani: eravamo abituati a partecipare alle elezioni e a scegliere tra il male e il peggio, ad avere una piccola finestra di azione e negoziato con il regime. Ma in quel momento abbiamo capito che non era possibile. Abbiamo completamente ignorato le elezioni dell’anno successivo, quando Raisi fu eletto. Fu registrata la più bassa affluenza della storia della Repubblica islamica: il leader supremo Khamenei ci stava dicendo che era lui a decidere, che il presidente era solo una sua marionetta. Le decisioni venivano prese dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie, il braccio del leader supremo. È stato di nuovo chiaro dopo l’uccisione di Mahsa Amini e la rivolta: il controllo del paese è sempre di più nelle mani delle forze militari e del leader supremo.
Molti descrivono Raisi come un presidente debole. È sempre stato così? Il potere concentrato nelle mani di Khamenei e dei pasdaran, a prescindere da chi sia il presidente?
Sono stata attiva nella società civile sotto Khatami, Ahmadinejad, Rouhani e se ora guardo indietro a quegli anni capisco che la strategia del regime è sempre stata quella di creare una sorta di opposizione interna per motivare le persone che si opponevano al regime ad andare a votare. Pensavamo di poter trovare uno spazio in un regime brutale in modo democratico, per migliorare le condizioni dei diritti umani. Con il tempo quella strategia di armonia è diventata obsoleta, il regime si è reso conto che creare un’opposizione interna, come Khatami o Rouhani, generava troppi problemi. Con Raisi la strategia è diventata la voce unica: il regime non vuole una voce più grossa di quella di Khamenei. Non ci sono altre opzioni. In un certo senso è un bene: ora sappiamo che non possono più manipolarci.
Dopo la notizia dell’incidente aereo prima e della morte di Raisi poi, qual è stata la reazione dei cittadini e degli attivisti?
Quando sono sotto una grande pressione, gli iraniani reagiscono con l’umorismo nero. È successo anche il mese scorso con l’attacco israeliano. Siamo onesti, quella di domenica è stata una notte “divertente”, l’umorismo iraniano è da sempre un meccanismo di difesa. Il clima è cambiato il giorno dopo, quando abbiamo saputo della morte di Raisi: sulle piattaforme social la gente ha iniziato a scrivere altro, a ricordare le persone che lui mandò a morire negli anni ’80. Dopo l’ironia, è venuto il momento del ricordo di parenti, amici. C’è chi ha ricordato lo zio, chi il fratello, tutto in forma anonima. Altri di noi hanno ricordato chi è stato ucciso negli ultimi due anni.
Diversi esperti avvertono del pericolo di una nuova ondata repressiva dopo la morte di Raisi, un modo per dire che il regime non ne esce più debole.
È una paura sempre presente, lo abbiamo visto anche nel recente passato dopo l’uccisione del generale Soleimani o dopo calamità che hanno colpito la popolazione. È il regime che ci dice “non è cambiato nulla”. Ora ci troviamo in un periodo di grande oppressione. Se nei mesi successivi alla morte di Mahsa Amini non c’era la polizia morale nelle strade, è tornata in contemporanea alle nuove minacce israeliane. Il regime voleva mostrare che nulla era cambiato. Come donna non uscivo molto se non in auto, temevo di essere arrestata. Ma l’oppressione la vedi anche altrove, nella vita di tutti i giorni a causa dell’aumento dei prezzi di beni necessari.
A fine giugno si terranno le elezioni. Cosa vi aspettate?
È un lasso di tempo molto breve e tra gli uomini del regime non ce ne sono molti che possono fare il presidente. In ogni caso alla gente non importa. Ho quarant’anni e ho visto tante elezioni, ma mai un’affluenza così bassa. Alle ultime, a marzo, non c’erano nemmeno tanti manifesti per strada. Perché il regime lo sa che alla gente non importa più. È uno spettacolo già scritto.
Si aspetta nuove proteste in futuro?
Basta esprimere una minima forma di dissenso, anche solo un tweet, per essere arrestati. In questi giorni chi ha scritto commenti sulla morte di Raisi è stato convocato in tribunale. La sollevazione di due anni fa è stata come l’esplosione di un vulcano, oggi è un fuoco che brucia sotto la cenere. Non vedo molti elementi per una rivolta nell’immediato, ma è anche vero che l’arrivo dell’estate può provocare nuove proteste, soprattutto nelle province meridionali per la mancanza d’acqua e di elettricità come accaduto in passato. A Teheran sarà più difficile: siamo davvero esausti e moltissimi giovani hanno ancora casi pendenti, sono fuori su cauzione, stanno scommettendo sulle proprie vite.
(il manifesto, 22 maggio 2024)