14 Gennaio 2024
La Stampa

Per un pugno di uomini

di Giulia Caminito*


Quando ero in quinta elementare nella nostra classe c’era un bambino di nome P.

P. era seguito da una insegnante di sostegno e sedevano insieme al fondo della classe. Io non ho mai saputo la vera storia di P., sapevo solo che aveva problemi di linguaggio e apprendimento.

P. a un certo punto si innamorò di me, non so come mai. Non avevamo mai interagito molto e non eravamo amici, ma lo vedevo spesso nel suo mondo, nel suo spazio personale invalicabile.

Insomma, io non ricambiavo P. e lui si fece presto insistente sia nel modo in cui mi fissava, che nelle frasi che mi diceva. A volte mi seguiva o voleva a ogni costo sedere con me sul pulmino che ci riportava a casa. Io non volevo, continuavo a dire di no, gli ripetevo che preferivo sedere da sola. Ma lui non voleva saperne, durante la ricreazione era la mia ombra. Finché una volta glielo dissi ad alta voce che non volevo essere seguita da lui.

Fu allora che P. mi prese a pugni.

Tornai a casa con un occhio nero e dei graffi e ai miei genitori venne detto che P. aveva problemi di comportamento, tutti rimasero costernati dall’episodio, P. stesso non ne fu felice, mi chiese scusa e da quel momento non solo io mi tenni alla larga, ma anche lui non si avvicinò più. La violenza aveva sancito un confine, quella volta.

Per molto tempo mi sono dimenticata di questo episodio e di come ho smesso di fidarmi dei maschi e delle loro attenzioni se non volute.

Alle scuole medie divenni molto più insicura, chiusa e impaurita. Ero convinta di essere in costante pericolo di venir rapita e venduta all’estero. Immaginavo qualcuno che facesse la posta a noi ragazzine per attirarci con una scusa e poi farci sparire come quelle donne o bambine che a un certo punto non si sa più dove trovarle. La televisione era piena di questi smarrimenti, di appelli e tentativi di farle tornare vive a casa. In molti casi queste giovani donne, se sono tornate, lo hanno fatto da morte.

Ogni volta che vedevo un furgone bianco sotto la scuola correvo disperata verso le mie compagne di classe, quando mi fermavano per strada avevo l’istinto di scappare e nascondermi, mi tormentavo all’idea di rimanere da sola nei camerini dei negozi, nei sottoscala, nei giardini pubblici, ovunque potesse esserci un rapitore seriale pronto a occuparsi di me.

Divenni molto consapevole del fatto, da me ignorato nell’infanzia, di poter essere oggetto di stupro, di violenza. Ero così inquieta di finire in situazioni di pericolo che avevo ansia di avvicinarmi a qualcuno e poi capire che presto avrebbe preteso da me qualcosa. Sviluppai un senso del pudore claustrofobico, un disagio pervasivo nei confronti di ragazzi o uomini sconosciuti. Non volevo trovarmi a dover dire di no ancora, e che quel no non sarebbe servito e non mi avrebbe difesa

Da quel momento è diventato normale per me preoccuparmi dei luoghi in cui vado, evitare situazioni di troppa esposizione, non intrattenermi con chi non conosco, chiedere di essere riaccompagnata alla macchina, parcheggiarla preventivamente vicino al posto dove mi sto recando, non superare certi orari serali, visualizzare, sempre, quanti uomini ci sono nella via, cosa stanno facendo, cosa stanno guardando e se stanno guardando me provare un brivido di terribile angoscia, sperare che finisca presto, quella sensazione di tormento.

Ma oggi mi accorgo che si tratta perlopiù di un riflesso automatico, un sistema di considerazioni che scatta senza che io debba preventivamente ragionarci sopra, è diventato inconscio per me fare caso a tutta una serie di comportamenti che potrebbero evitarmi una occasione di violenza.

In questi giorni mi è capitato di vedere un documentario del 2020, e ora disponibile su Netflix, dal titolo Beyond Men and Masculinity del regista Alex Gabbay. Nel lungometraggio si parla dell’educazione anti-emotiva che viene data agli uomini fin da piccoli e di quali pratiche oggi si stanno attuando per cercare una riconnessione tra quelle emozioni infantili soppresse e i soggetti frustrati, depressi, violenti, che sentono di averle perdute. Psicologhe, mediatori, pedagogisti si confrontano sulle diverse età del maschio e le fasi della formazione dell’individuo, provando a capire come spezzare la linea del patriarcato. Il desiderio di connessione viene individuato quale movente primario di comportamenti aggressivi e dispotici, come può capitare ai bambini o agli adolescenti per far parte di un gruppo, essere riconosciuti da altri. La connessione, infatti, fatica a muoversi per i giovani uomini sul piano delle emozioni condivise, verso le quali c’è grande soggezione. I ragazzi che risultano più emotivi, docili, gentili vengono presi di mira, invitati a uscire dal gruppo per avvicinarsi alle femmine. La loro sessualità è messa in dubbio immediatamente e la loro attrattiva per giochi e leadership ridotta a zero.

Spesso questa soppressione è stata attuata dai padri e prima dai nonni, in una catena di responsabilità, da cui emerge una visione degli uomini parziale, dove non c’è molto spazio per il fallimento e la debolezza. I padri, nel corso della Storia, hanno sempre teso a sgridare i figli maschi quando non raggiungevano degli obiettivi, quando per colpa dei loro problemi psicologici o delle loro fragilità non rispondevano in modo adeguato al ruolo sociale che avrebbero dovuto ricoprire.

Questi studi e testimonianze sottolineano che se il gruppo maschile tende a non saper riconoscere la fragilità e a sopportarla, i ragazzi e poi gli uomini sono portati a cercarla altrove presso le donne, che diventano allora fulcro dell’attività sentimentale. Emozioni soppresse con gli altri uomini vengono convogliate verso il soggetto femminile, a volte investendo la donna di frustrazioni enormi, problematiche psicologiche gravi, ossessioni di possesso, pulsioni aggressive, violente. La donna-specchio dove si riflettono le emozioni, la donna-testimone della parte più fragile e mai espressa in alcuni casi deve essere colpita, eliminata, diventa insostenibile. Soprattutto quando dice di no, quando si allontana. E reclama per sé stessa non il ruolo di “funzione” ma la libertà di una persona.

Un episodio del documentario mi ha particolarmente colpita: un bambino sta giocando a una partita di hockey ma non fa del suo meglio, la squadra alla fine perde, il padre, che era nel pubblico, lo umilia davanti a tutti facendogli notare che non si è impegnato abbastanza e il bambino piange, ha un momento di vergogna e sconforto, va allora a sedersi sugli spalti accanto alla madre che, come farebbero molte, si avvicina per confortarlo: è in quel momento che il bambino scatta e dà un pugno in faccia alla madre.

Ecco in una scena manifestato il meccanismo della rivalsa, della aggressione e dello specchio: la madre che cerca sul piano emotivo l’avvicinamento e la cura è la più facile da colpire, la più esposta, quando il padre e gli altri maschi in campo non lo sono e anzi negano la possibilità del pianto, del dispiacere e dello sfogo, considerati comportamenti vili, infantili.

Noi donne in qualche modo sappiamo che essere prese a pugni è una cosa che ci riguarda. Non nel senso che veramente ognuna di noi ne riceve o ne riceverà o che gli uomini ricorrono tutti alle proprie nocche in caso di difficoltà. Ma nel senso che noi lo sappiamo, noi profondamente da un certo momento in poi della vita lo sappiamo che saremo sempre potenzialmente corpi considerati utili allo sfogo di vergogne, frustrazioni, inettitudini, depressioni. E che quegli sfoghi potrebbero essere fisici, potrebbero essere violenti. Noi camminiamo nel mondo sapendo che non avremo presumibilmente la prontezza, la forza fisica, la determinazione per reagire con un altro pugno, ma faremo come ho fatto io a dieci anni quando P. si è sentito rifiutato e mi ha picchiata: sono rimasta immobile, intontita e poi ho cominciato a piangere e a sentirmi svuotata e incapace.

Quando si parla di patriarcato, di un sistema che vede dei ruoli ben distinti per uomini e donne nella società, un sistema che è stato messo in discussione nel secolo scorso e che ha subito scossoni, rese e modifiche, si tende a dimenticare il lato umano ed emotivo, il lato profondo e meno visibile del patriarcato che riguarda le individualità, le loro dinamiche piccole e quotidiane. Il lavoro comune per il superamento è grande, è faticoso, è doloroso, la morte del patriarcato sta avvenendo molto lentamente e intanto rimangono a terra i corpi di quelle donne specchio-testimone, che senza saperlo lo hanno messo in crisi, lo hanno sfidato coi loro no, coi loro gesti di autonomia.


*Giulia Caminito, scrittrice, è ideatrice dell’azione letteraria “#unite” contro la violenza sulle donne. Ha vinto il Premio Campiello nel ‘21 e collabora con il quotidiano La Stampa


L’iniziativa Un’azione letteraria contro la violenza sulle donne


La scrittrice Giulia Caminito e la giornalista Annalisa Camilli hanno ideato la campagna di scrittura “#unite”, invitando autrici italiane a scrivere un articolo o un racconto sulla violenza contro le donne. Hanno aderito oltre 80 scrittrici e giornaliste (alcune: Daria Bignardi, Chiara Gamberale, Loredana Lipperini, Rossana Campo) che, fino alla fine di febbraio, pubblicheranno su quotidiani e riviste il proprio contributo. «Un’azione di gruppo – scrivono Camilli e Caminito – che nasce dalla volontà di trovare insieme parole più giuste per parlare di violenza sulle donne». A cominciare da oggi, La Stampa farà la sua parte. Il secondo step del progetto (che si può seguire su Instagram @unite_azioneletteraria) verrà comunicato a marzo.


(La Stampa, 14 gennaio 2024)

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