28 Maggio 2020
Corriere della Sera

Perché senza donne non c’è ripresa

di Maurizio Ferrera e Barbara Stefanelli


La fase 2 è partita tra promesse di sussidi e bonus, ma ancora senza una visione. Due punti critici rischiano di indebolire dalle fondamenta la grande ricostruzione: l’assenza di un piano di investimenti per il lavoro delle donne e per la formazione dei giovani. Proviamo a vedere, in due puntate, che cosa potrebbe essere immaginato (e avviato presto) in questa transizione dalla quale dipende la chance dell’Italia di restare al passo con l’Europa migliore.

Partiamo da una constatazione. In tutti i Paesi il virus ha colpito di più la popolazione maschile in termini di mortalità. Se però consideriamo i contagi e disaggreghiamo i dati per classi d’età, la proporzione s’inverte. In Italia fra le donne adulte (20-50 anni) le diagnosi di Covid-19 sono state di circa 10 punti superiori rispetto agli uomini. Un secondo numero sensibile, a inizio ragionamento, è quello che offre una sintesi del mercato del lavoro: in tutto il mondo l’incidenza della disoccupazione, della sospensione dal lavoro e delle riduzioni di reddito è stata più alta per le lavoratrici. Perché? Queste due dinamiche sono intimamente correlate.

Da un lato, molti dei settori «essenziali» in cui si è continuato a lavorare offline sono a prevalenza femminile. Nella sanità e nei servizi sociali due terzi del personale è composto da donne, ma il divario è presente anche nella vendita al dettaglio (pensiamo ai supermercati), nei call center, nelle attività di pulizia. Ciò spiega l’alto impatto della malattia fra le donne in età da lavoro. Dall’altro lato, le donne sono più presenti nei settori «non essenziali» (fermati dal lockdown) che ora affrontano una contrazione drammatica: turismo, ristorazione e in generale i servizi (dove è femminile l’84% della forza lavoro). Dato il crollo della domanda, molte imprese attive in quest’area hanno dovuto usare massicciamente la cassa integrazione, alcune hanno chiuso e non riapriranno. Le donne si sono dunque trovate strette in una tenaglia: nei settori essenziali, hanno subito più degli uomini le conseguenze del contagio; nei settori congelati dalla quarantena, sono state e sono più esposte al rischio di penalizzazioni retributive se non di licenziamento

I CANCELLI INVISIBILI

A questa altalena si aggiunge il sovraccarico che ha contraddistinto le settimane di blocco: da fine febbraio a maggio, le donne hanno pagato il prezzo più alto nella sfera delle relazioni personali. Uno: la convivenza forzata ha aumentato i casi di violenza domestica. Due: la chiusura delle scuole e la clausura dei nonni hanno accresciuto gli oneri di cura e istruzione dei figli, persistentemente e prevalentemente gravanti su spalle femminili (spesso le donne che sono riuscite a difendere il proprio posto da remoto, cioè da casa, si sono viste — e in Italia si vedono tuttora — costrette a sovrapporre ore di attività professionale/familiare in condizioni di disagio). Tre: la rifocalizzazione della sanità verso le terapie Covid ha indirettamente reso più difficile e meno sicuro l’accesso ai servizi per esigenze biologicamente legate alle donne, come le patologie riproduttive o il parto.

Mentre accadeva tutto questo, in Italia i processi decisionali relativi all’emergenza e all’uscita dall’emergenza sono stati dominati — salvo correzioni in corsa — da politici ed esperti di sesso maschile. È possibile che la scarsa sensibilità alle implicazioni di genere nella fase di ripartenza sia imputabile proprio a questo squilibrio. Tuttavia il problema è più complesso. A dispetto dei progressi (lenti e non omogenei) degli ultimi due decenni, l’agenda di genere è destinata a scontrarsi di continuo con ostacoli imprevisti o di natura nuova. È la sindrome delle discriminazioni indirette, non intenzionali: per questo più subdole e difficili da contrastare. Come dicono gli scienziati sociali, la disuguaglianza ha cause strutturali, radicate alla base dei nostri modelli di organizzazione socio- economica, politica e culturale. Nei momenti di passaggio, come quello attuale, si presenta l’occasione di imprimere un cambiamento, una disruption come è stata chiamata dalla Silicon Valley in poi: un sovvertimento dell’ordine ereditato che si accompagna a una possibilità di innovazione del sistema intero. Altrimenti gli effetti della crisi provocheranno un arretramento dell’indipendenza economica delle italiane e un’accentuazione del divario domestico tra partner. E questo avverrà per ragioni pratiche, prima ancora che eventualmente ideologiche: all’interno di una coppia, in assenza di scuola o altri servizi, chi rinuncerà al lavoro quando non quadreranno i conti della cura dei figli o dei genitori anziani se non chi ha una retribuzione più modesta e un contratto più precario?

Quando si prova a discutere di tutto questo a ogni livello, nessuno contesta che il rilancio dell’economia italiana non possa non passare da un significativo incremento dei tassi di occupazione femminile, ostinatamente fermi intorno al 50%. Ci ritroviamo dalla stessa parte quando ripetiamo che è ridicolo tenere in panchina metà dei talenti nazionali, soprattutto considerando il merito crescente delle studentesse. Cominciamo a dividerci, però, quando si tratta di mutare l’agenda delle priorità e di deviare la corrente delle consuetudini. Per accelerare il processo di «parificazione» (che non vuol dire livellamento ma equità nell’incrocio delle possibilità e nel riconoscimento delle capacità) occorre mettere a nudo le radici più robuste — e, probabilmente, meno visibili — che ci tengono tutti e tutte prigionieri/e.

Da dove iniziare? Forse il bandolo va individuato in quell’insieme di pregiudizi inconsci che influenzano dal profondo le nostre aspettative di genere e vanno a modellare pratiche e istituzioni. I pre-giudizi sono ancora più potenti degli stereotipi. Si può pensare che in un’impresa gli uomini siano più adatti a gestire le questioni tecniche e le donne a gestire le risorse umane (doppio stereotipo). Se però fra due candidati ingegneri io scelgo in automatico l’uomo, anche se meno preparato, sarò causa di una distorsione valutativa. Che a sua volta inconsciamente scoraggia le donne dal candidarsi o persino dalla scelta di studiare ingegneria. In Italia persistono pregiudizi di «prima generazione» (le donne sono più adatte a lavorare a casa che fuori; i bambini crescono meglio a casa che all’asilo) che altri Paesi hanno superato. È su questo piano — con le scuole interrotte e la precarietà acuita di molti posti di lavoro — che le quarantene imposte dal Covid rischiano di farci perdere il poco terreno guadagnato.

Per sciogliere questi pregiudizi inconsci bisogna innanzitutto smascherarli. Le scienze cognitive suggeriscono che la strada più promettente è quella di affidare il compito a «un osservatorio imparziale» allenato allo scopo, che andrebbe attivato nei processi di decisione collettiva, come ad esempio quelli che gestiranno la ripartenza. Proviamo a chiamarla «maieutica di genere», esplicitamente integrata nel funzionamento di comitati o task force, nei board delle imprese o nelle aule parlamentari. Forme di confronto aperto tra persone che s’interrogano sui propri preconcetti e progettano soluzioni, facendo scelte condivise e per questo più coraggiose.

LA MELA DI BIANCANEVE

Un’impostazione che sfida la tentazione di archiviare la cosiddetta «questione femminile» perché c’è ben altro da riparare. Il «benaltrismo» è una lama sottile e segretamente avvelenata come la mela di Biancaneve. Un piccolo morso e il corpo sociale va in stand-by. Non è qui di «questione femminile» che ragioniamo, ma della forza di uno Stato attento a un futuro sostenibile. Non è «questione femminile» quando si immagina di promuovere risorse per le giovani imprese guidate da donne o di dare impulso a quel «neo-terziario sociale» che in altri Paesi offre beni e servizi per le famiglie (creando centinaia di migliaia di nuovi posti). Non è «questione femminile» quando si incoraggiano forme di conciliazione per i due genitori o flessibilità nel ricorso ai congedi parentali. Non chiamiamola «questione femminile» quando riflettiamo sui meccanismi e i benefici per la società intera del «gender responsive budgeting»: l’analisi dell’impatto che le politiche fiscali hanno sulle donne in particolare, in un trade-off monitorato tra efficacia e promozione dell’equità.

Già molti anni fa il lungimirante Alberto Alesina aveva suggerito di introdurre sistemi di tassazione capaci di incentivare l’inclusione lavorativa delle donne riducendo le loro aliquote, ragionamento opposto rispetto al «quoziente familiare» complessivo. Tra i tanti dati ai quali si potrebbe ricorrere in chiusura ne proponiamo uno tratto da un’elaborazione della Rete urbana delle Rappresentanze (RuR) sulla base di una ricerca Eurostat: il numero di donne italiane con responsabilità di cura dei figli è di pochi punti inferiore rispetto alla media europea (29,2% rispetto a 31,4 Ue), ma la percentuale di rinuncia femminile al lavoro per prendersi cura dei figli è nettamente più alta (11,1% rispetto a 3,7, che in Germania diventa 1,3 e in Danimarca 0,9). Guardando all’Europa, dunque, le italiane rinunciano ai figli temendo per il lavoro e/o al lavoro temendo per i figli. Perché questo indicatore e non altri? Per sbriciolare nel punto più sensibile il muro dell’inerzia di chi continua a invocare i ruoli «naturali» di genere o di chi — pur consapevole dei dislivelli — ancora non si muove per appianare il terreno. L’indipendenza economica attiva delle donne è la prima garanzia di libertà individuale e di sviluppo sociale.


(Corriere della Sera, 28 maggio 2020)

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