21 Dicembre 2022
il manifesto

Prima la scuola, ora l’università: i Talebani cacciano le donne

di Giuliano Battiston


«Siete informati di dover sospendere l’educazione delle ragazze fino a nuovo ordine». Con queste parole, in una lettera ufficiale indirizzata a tutte le università pubbliche e private ieri i Talebani hanno annunciato l’interruzione dello studio per le studentesse.

Il decreto porta la firma di Neda Mohammad Nadeem, ministro dell’Istruzione superiore, e ha effetto immediato: sin da oggi, mercoledì. Così, in poche ore decine di migliaia di ragazze afghane vengono private del diritto allo studio, della possibilità di istruirsi e di vivere in un contesto sociale più ampio di quello domestico.

Secondo il ministro, già governatore della provincia di Kabul, la decisione è avvenuta dopo che «i più importanti studiosi del Paese hanno valutato il curriculum e l’ambiente universitario dal punto di vista della sharia, e dopo che io stesso ho presentato il loro rapporto, con alcuni suggerimenti, alla leadership dell’Emirato», ad Haibatullah Akhundzada, la guida dei fedeli. «Se Dio vuole», prosegue il ministro, presto i Talebani riusciranno a far combaciare il diritto allo studio con «un ambiente rispettoso della sharia».

C’è da dubitarne: le scuole superiori femminili sono chiuse da 457 giorni e l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo a negare loro l’istruzione. Anche in quel caso le autorità di fatto hanno più volte ripetuto che si trattava di una sospensione, non di una vera chiusura, e che «presto» sarebbero state riaperte. Le adolescenti afghane continuano però ad aspettare, tranne rari casi.

Le loro sorelle più grandi si preparano a una nuova vita, tre mesi dopo aver sostenuto gli esami di ingresso all’università, potendo scegliere un ventaglio di facoltà ridotto rispetto al passato. Le voci sull’eventualità della chiusura circolavano da settimane: l’idea che le università siano incubatori di proteste preoccupa i Talebani, che non hanno esitato a usare le maniere forti anche per controllare i dormitori o, in alcuni casi, impedire che le ragazze potessero uscirne in occasione di proteste o manifestazioni.

La decisione segna un’ulteriore tappa nella transizione del movimento dei Talebani da gruppo di lotta armato a gruppo di potere istituzionale, per quanto non riconosciuto dalla comunità internazionale. E complica ulteriormente i rapporti con gli stranieri: consolida la linea dell’autarchia rivendicata nel luglio scorso dal leader supremo alla Loya Jirga, la grande assemblea di Kabul, quando disse che «non ci saranno compromessi sulle leggi prescritte dalla sharia. Il mondo non dovrebbe interferire in Afghanistan, un Paese sovrano e indipendente».

Per aggiungere: «Anche se useranno la bomba atomica, non faremo neanche un passo contrario a quel che chiede Allah e stabiliremo un vero sistema islamico». Quello dei Talebani non è però il sistema islamico auspicato dalla maggior parte degli afghani e delle afghane, che guardano al diritto allo studio, anche delle ragazze, come tale: diritto di tutte e tutti.

Da qui, l’inevitabile inasprimento del conflitto sociale interno. Sul piano esterno, la decisione dei Talebani arriva proprio nel giorno in cui al Consiglio di sicurezza dell’Onu la rappresentante speciale del segretario generale, Roza Otunbayeva, ribadiva come la chiusura delle scuole avesse inasprito e compromesso i rapporti con la comunità internazionale, portando a uno stallo.

Tutto ciò mentre Martin Griffiths, sottosegretario per gli affari umanitari dell’Onu, ricordava come solo le esenzioni alle sanzioni che pesano su diversi ministri che sono sulla lista dei terroristi Onu abbiano fin qui permesso di evitare la catastrofe umanitaria.


(il manifesto, 21 dicembre 2022)

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