di Silvia Niccolai
Gestazione per altri. Se siamo in grado di decifrare i beni che i “nuovi” bambini e i “nuovi” genitori domandano è perché sappiamo quanto valgono riconoscimento e affetto
Nella registrazione dell’atto di nascita di una bambina nata per surrogazione di maternità (gpa), decisa in questi giorni dal Comune di Roma, può essere vista una scelta volta a tutelare l’interesse di un singolo bambino a uno status familiare.
È una scelta che, indipendentemente dalla sua correttezza, di cui ora non discuterò, nulla implica, né può implicare, in favore della legalizzazione della gpa come modo di far nascere bambini futuri. Questo infatti è un tema che coinvolge questioni su cui non va messo un timbro, ma tenuta aperta la discussione.
Una è il problema dei diritti sul proprio corpo. C’è chi dice: una donna è padrona del suo corpo e nessuno può vietarle di disporne, gratuitamente o per soldi.
Ricordo al riguardo un’opinione, che all’«illusione» di spiegare il diritto sul proprio corpo come proprietà, obiettava che «il vero è, al contrario, che noi possiamo spiegarci l’intima essenza del diritto di proprietà solo per un’analogia, modellata sulla prima e naturale certezza dell’appartenenza immediata del nostro corpo a noi stessi».
È il rapporto profondo e interiore col corpo a fornire il modello della proprietà, suggerisce questo pensiero, non è il rapporto esteriore e utilitario con le cose a fornire il modello del rapporto col corpo, e se non pensiamo il mondo a partire da noi può essere il mondo a dettare, per noi, ciò che dobbiamo essere e pensare, riducendoci, in fondo, a cose. Mettendosi in questa prospettiva, Giorgio Del Vecchio criticava l’affermarsi di una nozione di proprietà tutta funzionalizzata alla dinamica del commercio, vale a dire la nozione per cui se ti è riconosciuto un diritto su qualcosa non è nell’interesse tuo e per fini tuoi, ma in vista di un superiore interesse collettivo, che è quello alla circolazione e alla valorizzazione delle risorse. I patrimoni non devono restare improduttivi, e non solo quelli enormi e impersonali, come uno stock di azioni, ma i più piccoli e individuali. Nel lontano 1920 era identificato il diktat che oggi mi spinge a pensare ‘mia’ non la cosa con cui posso sviluppare un mio rapporto, a modo mio, ma quella da cui devo trarre profitto, o che devo rendere profittevole (anche quando la donna si presta alla gpa per ‘dono’ intorno a lei lucrano le cliniche e gli studi legali). Dire che il corpo è mio, dunque, non basta: si può parlare di proprietà e evocare una situazione di perpetua instabilità: se ho diritto su qualcosa è per darlo via. Oppure richiamare l’idea di una relazione durevole, profonda e creativa con le cose esterne, così come con sé.
Ecco dunque una grande questione racchiusa nella gpa. L’idea di disporre del corpo ‘come proprietarie’ può sancire che tra una persona e una cosa, tra una persona e se stessa, e tra le persone, non possono esistere relazioni che hanno valore in sé. Nella gpa vedremmo così un caso in cui la predicazione di valori apparentemente liberisti ha sonore implicazioni collettivistiche, e cioè espropriative; forse l’emblema di un’epoca, in cui veniamo moralmente ristrutturati a interiorizzare come normale l’instabilità e l’incertezza dei nostri diritti, al lavoro, alla pensione, ai risparmi, alla libertà delle nostre scelte, subordinati al cangiante interesse dei mercati, e, perciò, non più diritti.
Anche applicata a una ‘nuova genitorialità’ che vorrebbe prescindere dalla figura materna la prospettiva soggettiva, ovvero il partire da sé, potrebbe avere risultati interessanti. Se siamo in grado di decifrare i beni che i ‘nuovi’ bambini e i ‘nuovi’ genitori domandano è perché sappiamo quanto valgono cose senza prezzo come riconoscimento e affetto, le quali non sono condizionate a una base biologica o all’appartenenza a un sesso determinato.
Ma dove lo abbiamo imparato, come? A meno di non credere che siamo agiti dalla forza incontrastabile di una oggettiva Legge di Ragione, si può pensare che se vediamo queste cose, le immaginiamo e le consideriamo importanti, è perché ci richiamano l’opera della madre, che ci rende capaci di reciprocità, di creare legami inalienabili, durevoli e fini in se stessi, avendoceli per prima fatti esperire. Potremmo scoprire che le nuove forme di genitorialità e il riconoscimento che ottengono devono molto a capacità che negli esseri umani lascia l’impronta materna. I ‘nuovi padri’ sono riconosciuti da un moto che inizia da nuove madri. Sono state due sindache, entrambe madri, a consentire annotazioni di stato civile di cui si discute. Tutto questo ci potrebbe far pensare a quanto il vivere insieme deve al materno; a come sia imprudente volerne annullare l’idea, invece di capirla fino in fondo.
(il manifesto, 1 maggio 2018)