8 Marzo 2016
il manifesto

Quello che i diritti non dicono

di Silvia Niccolai

Dato che un fondamentale libro femminista si intitola Non credere di avere dei diritti (1987), si capisce che parlare delle libertà dal punto di vista femminile è un’opera strana che non può che cominciare con un rovesciamento di prospettiva. Generalmente si pensa che la libertà viene dai diritti e dai mezzi. «Noi invece – ha scritto una volta Luisa Muraro – affermiamo che soltanto la libertà permette di godere dei diritti e dei mezzi materiali». Spesso si sostiene che bisogna cambiare la realtà perché vi sia libertà. «Noi invece diciamo che la capacità di cambiare le cose viene dalla libertà, è un frutto della libertà».
Per esempio, il diritto di abortire non ti salva dall’uso subalterno della tua sessualità, che ti fa restare incinta quando non vorresti. Saranno i maschi a insegnarti a smettere di farti regolare dai loro desideri? Sarà un disposto legislativo? Vi è da dubitarne. Serve, e basta, un’altra cosa: un’immagine libera, autorevole, del proprio sesso, dunque di sé, e non si può che ricavarla da altre donne. Il legislatore ci ha permesso di continuare a farci mettere incinte per sbaglio; la premura di alcune donne verso le altre ha ricordato a ciascuna che lei può non abortire mai più. Delle due, io chiamerei libertà questa seconda, acquistabile «con un’esistenza progettata a partire da sé e garantita da una socialità femminile» (Non credere…).
Sarebbe utile chiedersi ogni tanto: che cosa mi è venuto dalla legge? Che cosa mi è venuto da altre donne, dal loro pensiero, dal loro esempio, dall’attenzione che hanno avuto per me? Se si dimenticano i beni ricevuti da altre donne sembrerà sempre che all’origine di ogni libertà o diritto che esercitiamo ci sia tutto meno che il nostro essere femminile, e sempre e solo la virtù di un legislatore, se non direttamente le magiche sorti progressive del mondo occidentale. A guadagnarci legittimazione, consenso e autorizzazione saranno queste ultime, non certo le donne, insignificanti strumenti attraverso i quali il potere ribadisce il suo ruolo salvifico sulle sorti umane.

Penso all’uso che alcune fanno di una classica libertà civile, la libertà di manifestazione del pensiero. Ritorna spesso, o così m’è parso seguendo ultimamente i discorsi intorno alla maternità surrogata, il dire: «Chi sono io per giudicare quello che fa un’altra donna? Io non lo farei, ma se una vuole farlo… E comunque ci penserà la legge». Oppure: «Nessuna donna può parlare in nome delle donne! Se una vuole affittare il suo utero è libera!». Se tu non lo faresti, com’è che non ti importa che un’altra lo faccia? Non pensi che farle sentire la tua disapprovazione potrebbe farle passare da subito la voglia di farlo? Sfugge in questi casi la differenza tra il parlare in nome delle donne e il prendere parola come donna, senza di che il discorso pubblico non può prendere un segno femminile. Se tu non ti prendi la libertà di giudicare, quale libertà insegni a un’altra? Quando spunta una che dice: «Io lo farei, così, per fare un regalo», potremmo ricordarle che intorno al fare i bambini nuotano da secoli le più classiche fantasticherie femminili, che compensano il disperato bisogno di contare in una società che non ti vede. Con tutti i diritti che abbiamo siamo dunque messe tanto male? Sarebbe un’interessante rivelazione, e meriterebbe parlarne. Ma preferiamo astenerci dal giudizio, avallando così l’idea che il nostro, che ci dice libere perché legittimate a asservirci per contratto, nell’indifferenza collettiva, è il Migliore dei Mondi Possibili. Da molto si sa che la sospensione del giudizio di una donna verso un’altra non dà a questa libertà, ma produce solo una mutua conferma dell’irrilevanza del nostro essere donne e dunque del nostro agire.
Dimostrandoci immemori, dunque ingrate, ci perdiamo in intelligenza. Dopo tanta emancipazione siamo troppo pavide (sarà l’effetto della cura?) per raccogliere le domande che altre ci hanno pur rese libere di formulare. «Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Questo interrogativo contiene i germi della nostra liberazione: formulandolo, le donne abbandonano l’identificazione con l’uomo e trovano la forza di rompere un’omertà che è il coronamento della colonizzazione» (Carla Lonzi, 1971).

Penso a Google, che si offre di crio-congelare gli ovuli delle sue dipendenti (per il piacere di chi sto rinviando la mia gravidanza?); ai farmaci con cui le donne in carriera rinviano le mestruazioni onde non perdere i meeting di lavoro (per il piacere di chi mi sto avvelenando? Per il piacere di chi sto innalzando la produttività a valore assoluto?); alla madre che consegna il suo prodotto (per il piacere di chi ho vissuto nove mesi?) e, di nuovo, alle donne che, per carità, non si permetterebbero mai di sindacare quello che altre fanno!
Per il piacere di chi sospendono il loro giudizio, a chi non vogliono dare fastidio, di chi cercano l’approvazione? Dei compagni di partito, o dell’opinione progressista? O forse si sentirebbero troppo cattive a disapprovare un’altra donna? Eppure, «la politica femminile non è mai stata la raccolta delle buone coscienze o delle rappresentazioni giuste di sé. È stata dagli inizi e rimane una guerra contro ciò che divide la donna dalla sua simile privandola della sua fondamentale risorsa di libertà che è l’appartenenza al genere femminile. Non era, come si è detto, una guerra contro gli uomini, ma era e rimane una guerra contro l’intromissione maschile nei rapporti fra donne e delle donne con il mondo» (Non credere…). Se oggi molte conducono una guerra al contrario, incaricandosi di intromettere il conformismo al pensiero dominante nell’interpretazione di ciò che accade alle donne, siamo certamente davanti al disordine che deriva da un uso sbagliato della propria gratitudine. Forse a qualche calcolo di convenienza. Ma soprattutto, credo, a un attacco, violento pur nelle forme subdole della rimozione, contro il potenziale rivoluzionario che il femminismo, dico quello italiano della differenza sessuale, mette a disposizione di tutte e di tutti. «Noi chiamiamo politica femminile il progetto di cambiare la realtà facendo leva su questa possibilità che ogni donna, ogni essere umano, possiede di trasformare in sapere della realtà ciò che della realtà patisce» (Non credere…). Se deleghi lo status quo a spiegarti come devi essere, quello ti fabbricherà le libertà che fanno comodo a lui, e che tali non sono. Ma tu lo sai da te. Lo sai, quello che soffri e quello che ti fa piacere, e questo ti dà una misura di giudizio che orienta il suo desiderio. Di qui, puoi cominciare da subito a cambiare le cose.
Rovesciando le prospettive, il pensiero delle donne va al cuore dei problemi, perché sa come il potere subordina a sé gli esseri umani: convincendoli di essere piccoli. Per quanto mi riguarda, non ci crederò mai che un’americana che partorisce per comprarsi la macchina, o per riempire il vuoto della sua vita, sia un esempio per la mia libertà. E ringrazio le donne che, per amor mio, mi hanno insegnato a rifiutare un’idea così umiliante di me.

(il manifesto, 8 marzo 2016)

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