26 Settembre 2021
il manifesto

«Questo è il tempo delle donne, fate largo alla rivoluzione»

di Chiara Cruciati


I primi cappelli di paglia compaiono già in metropolitana. Sopra c’è scritto «Belle ciao». All’ingresso di Piazza del Popolo, in un caldissimo sabato romano, le donne della Cgil ne distribuiscono altri per proteggersi dal sole, mentre controllano i green pass.

Pochi minuti dopo le 14 la piazza inizia a riempirsi. Dal palco Veronica Pivetti accoglie le tante donne e le tante realtà (Fridays for Future, Lucha y Siesta, Blm, Le Contemporanee) arrivate per una giornata di affermazione di una volontà: serve fare la rivoluzione.

La manifestazione, organizzata dall’Assemblea della Magnolia, realtà nata un anno fa sotto il grande albero della Casa internazionale delle donne di Roma, chiede proprio questo: una rivoluzione della cura e di un sistema paternalista e patriarcale che ha condotto, in quasi due anni di pandemia, sull’orlo del baratro. Qui, come altrove.

Accanto alle centinaia di realtà italiane che hanno aderito, ci sono organizzazioni impegnate da anni in Afghanistan, che sul palco romano portano le voci e i corpi delle afghane costrette a fuggire dal rinnovato regime talebano.

Un filo rosso e internazionalista, tessuto dalla consapevolezza che non ci si salva da sole: «Se retrocediamo oggi sui diritti delle donne afghane al lavoro, l’educazione, alla partecipazione politica – dice Simona Lanzoni di Pangea – perdiamo tutte».

«Pensiamo di essere noi a dover dire alle afghane come resistere? – alza la voce Luisa Rizzitelli, di One Billion Rising, che ieri ha riempito piazze in tutto il mondo in solidarietà con l’Afghanistan – Sono loro che ci stanno dicendo che, se non sentiamo come nostra la prevaricazione che subiscono, allora siamo complici e destinate ad arretrare sui nostri diritti. L’equità di rappresentanza non è un’elemosina che ci fate, è tempo di un governo delle donne».

Dalla vita pubblica le afghane sono state interdette, ricorda Simona Cataldi di Cisda, ma non dalla società: «Stanno occupando le piazze, movimento spontanei che cresceranno».

Una sorellanza di fatto che rimbomba nelle parole delle ragazze che salgono sul palco, senza nome per garantirne la sicurezza: «Diciamo ai talebani che non possono rimuoverci dalla storia. Vi combattiamo con le nostre parole, la nostra mente, con manifestazioni dentro e fuori l’Afghanistan. Diciamo alle nostre sorelle di non fermarsi: siete la luce in un cielo buio».

Tante luci quante sono le violenze perpetrate, «le morti nel Mediterraneo, le torture in Libia, le guerre, il patriarcato in Italia dove i femminicidi sono una mattanza».

Così Maura Cossutta, presidente della Casa internazionale delle Donne di Roma, che strappa subito un applauso liberatorio quando festeggia l’ultima delle vittorie, il comodato d’uso della sede di via della Lungara, «luogo simbolico per la storia del femminismo, ma anche luogo politico di pratiche femministe»: «Le donne hanno pagato il prezzo più alto della crisi. Il Pnrr non ha una visione sulla necessità di un cambiamento. Serve un posizionamento radicale e femminista, una rivoluzione della cura per un cambiamento totale dei meccanismi economico-sociali e dei rapporti tra uomini e donne».

Questo il cuore di una mobilitazione che parte da lontano e prosegue sulla propria strada, la presa di coscienza collettiva della cura come diritto sociale, responsabilità pubblica e non mero destino millenario delle donne, scontato quanto immeritevole del riconoscimento del suo ruolo sociale.

Lo dicono i numeri e lo dicono le storie e le esperienze delle donne che si susseguono sul palco di Piazza del Popolo: «Numeri della vergogna – li chiama Linda Laura Sabbadini, direttrice dell’Istat – Meno della metà delle donne lavora, una su cinque lascia l’impiego dopo la nascita di un figlio. Investiamo nell’assistenza un quarto di quello che fa la Germania e solo il 12% dei bambini trova posto negli asili pubblici. Questa politica ha fallito, non ha l’uguaglianza di genere tra le sue priorità. O fate un balzo o ci troverete ancora qua. Siamo pronte a governare, fateci largo».

I numeri li dà anche Arianna De Chiara del Forum Salute. Quarantunenne, fisioterapista in una Rsa, racconta delle 249mila donne che nel suo settore hanno perso il lavoro, di come il 70% dei contagiati siano state le operatrici: «Vogliamo riappropriarci della parola servizio perché oggi il privato dice di fare meglio del pubblico ma lo fa con le risorse pubbliche. Vogliamo la fine delle mega Asl e del ruolo patriarcale dei direttori generali. E vogliamo riappropriarci della parola nazionale, con un servizio sanitario unico e non 20 sistemi regionali che generano solo diseguaglianza».

Un’assenza di welfare eguale e funzionante che pesa sul corpo delle donne, sul loro lavoro e sulla partecipazione politica come nella vita privata. Che pesa su un Pnrr da cui la voce delle donne è stata resa marginale, che non immagina infrastrutture sociali, che non mette in discussione il lavoro precario: «Il Covid è stato uno straordinario fatto collettivo – dice Susanna Camusso, ora responsabile Cgil per le Relazioni internazionali – Esiste una necessità nel mondo di fare della cura un impegno collettivo e non solo delle donne. Non ci sono ruoli naturali. Cancellare il lavoro precario, assumere nella pubblica amministrazione, finirla con i bonus e dare servizi che funzionano».

E allora rivoluzione sia, che parta dalle scuole («Cura del mondo come educazione – dice l’insegnante Monica di Bernardo di Indici paritari – come pratica condivisa verso l’autonomia, una scuola che abbandoni la centralità dell’uomo bianco eterosessuale e riveda i rapporti») per arrivare in fabbrica.

La voce delle lavoratrici della Gkn arriva con un audio, sono rimaste al presidio di Campi Bisenzio, non lo mollano. Arriva con la canzone che accompagna da mesi la loro protesta e arriva con un messaggio internazionalista e femminista: «L’azienda deve poter ripartire, non essere spostata dove il costo del lavoro è più basso e dove ci sono donne pagate ancora di meno. Quando chiude una fabbrica, non è lo stesso per una donna. Vogliamo parità salariale e parità di formazione. Insorgiamo».

Rivoluzione, ma anche gioia, quella degli stornelli e le parodie cantate e suonate da Sara Modigliani e Sonia Maurer e che fanno ballare la piazza. È la gioia di essere: «So’ nata donna e me ne vanto».


(il manifesto, 26 settembre 2021)

Print Friendly, PDF & Email