12 Agosto 2022
MicroMega

Se Fukuyama avesse letto Carla Lonzi…

di Federica D’Alessio


Nel suo ultimo libro “Il liberalismo e i suoi oppositori”, il politologo americano Francis Fukuyama rivede a 30 anni di distanza le eccessive sicurezze riguardo alla “Fine della storia” e riconosce che il liberalismo, nel XXI secolo, è un veliero nella temperie; che non necessariamente supererà la tempesta.

Il liberalismo non è mai stato tanto in crisi come oggi, e non è scontato che riuscirà a sopravvivere alla temperie del III millennio. Da questa calda preoccupazione trae origine l’ultimo libro del politologo americano Francis Fukuyama, “Il liberalismo e i suoi oppositori”, pubblicato in Italia da Utet Libri nella traduzione di Bruno Amato e Maria Peroggi. A trent’anni di distanza dal classico che lo rese celebre, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, vacilla la sicurezza con la quale lo studioso proclamava che la dottrina liberale rappresentasse il compimento della storia “universale e direzionale”. Forse non sarà ciclica come sosteneva Aristotele, ma di certo – comprende Fukuyama pur evitando di esplicitarlo – la storia è fatta anche di passi indietro. E nel momento in cui la vetta più alta del sistema liberale mondiale, gli Stati Uniti, affrontano i rischi di una sconfitta dall’interno della loro democrazia a causa della virulenza del trumpismo, c’è da chiedersi quanto fossero davvero solide le basi della riflessione di un trentennio fa, che così tanta eco ebbe.

Ma il suo ultimo libro non è un bilancio né un ritorno di riflessione sui presupposti filosofici di quanto aveva affermato trent’anni prima. Per Fukuyama, il sistema liberale rappresentava il miglior compimento possibile della dialettica servo-padrone illustrata da Hegel giacché nel liberalismo le contraddizioni si sciolgono e la libertà si compie: attraverso una sorta di domesticazione razionale del thymós, di quel senso di rabbia, orgoglio e megalotimia (la convinzione che il mondo ci debba un riconoscimento di superiorità) che spinge le persone alla lotta e all’affermazione violenta di sé, e grazie a un accomodamento delle passioni umane nella soddisfazione borghese del piacere e del desiderio. Le istituzioni democratiche, il coinvolgimento delle maggioranze negli indirizzi dello Stato e della vita sociale, la diffusione ampia dei frutti del sistema economico e la diffusa possibilità di iniziativa personale, offrivano per Fukuyama il miglior sbocco ai dilemmi della psiche umana, al bisogno di bilanciamento fra gli slanci del thymós e la sua distruttività, alla necessità di equilibrio fra la megalotimia dei pochi e l’isotimia – la richiesta di pari riconoscimento – delle maggioranze.

Pur costellando la sua riflessione di molte ipotetiche e molte mani avanti, il teorico americano offriva insomma una spiegazione quasi essenzialista del successo del liberalismo nei confronti del suo principale antagonista dell’epoca, il sistema sovietico comunista che all’inizio degli anni ’90 appariva ormai arrivato alla fine del suo percorso. Pur annotando la persistenza del regime cinese, Fukuyama lo riteneva avviato verso una maggiore liberalizzazione, dettata dalla necessità di aprire lo spazio dell’economia all’iniziativa privata garantendo più libertà ai lavoratori. Non prevedeva avrebbe rappresentato un antagonista di primo piano per gli Stati Uniti. E sebbene non gli sfuggisse la diffusa presenza di personalità megalotimiche nel sistema liberale – citava proprio Donald Trump – riteneva che non sarebbe stato il mondo politico ad assorbirne le energie ma che tali personalità avrebbero trovato sfogo in attività più innocue da un lato e più gloriose dall’altro, nelle quali avrebbero indirizzato il loro surplus di egomania.

Mai previsione fu più sbagliata. Lo stesso Fukuyama, nel suo penultimo libro “Identità” (anch’esso edito da Utet Libri, tradotto da Bruno Amato) esordisce confessando lo sbigottimento per l’elezione del magnate, e inizia a farsi una serie di domande su quali esigenze di natura identitaria il liberalismo lasci insoddisfatte. Individua due tendenze che a suo dire rischiano, se non affrontate, di minare la solidità della democrazia liberale: la prima è nelle identity politics in voga presso i campus americani. Prendendo le mosse dalle legittime rivendicazioni di maggiore dignità di categorie tuttora bistrattate nella società americana, come le donne, le persone nere, le minoranze LGBT+ fra le altre, i fautori e le fautrici delle politiche identitarie hanno sviluppato nel tempo un’ideologia politica antiliberale, che mette in discussione il concetto stesso di diritti individuali alla base del sistema democratico per privilegiare le rivendicazioni dei gruppi. Al tempo stesso, squalificano alcune basi del pensiero moderno, fra cui il metodo scientifico basato sull’osservazione dei fatti, e la prevalenza dell’esperienza, che unisce le persone nelle diversità, sull’esperienza vissuta, ovvero sull’interpretazione ipersoggettiva della realtà che mette al centro i sentimenti e le emozioni atomiche sulla possibilità della condivisione; negando così l’esistenza stessa di un terreno comune fra persone diverse, e dando invece – molto pericolosamente – per intesa l’esistenza di un terreno comune solo fra persone che a priori etichettano il proprio vissuto con la stessa dicitura. L’“esperienza trans”, per esempio, per i seguaci delle identity politics non è il terreno condiviso attraverso cui le persone transessuali, raccontando la propria vita e le proprie sfide inevitabilmente diverse per ogni individuo, mettono chi è disposto ad ascoltare in condizione di capire e immedesimarsi nella loro condizione. Nella cornice delle identity politics, l’“esperienza trans” diventa un apriori incomprensibile per chi non fa parte del gruppo “trans”, che può solo essere validato così com’è; criticarlo o metterlo in discussione attraverso semplici domande e dubbi significa in automatico delegittimarlo, e l’appartenenza stessa al gruppo trans o meno finisce per difendere dall’unico criterio della validazione. Se mi validi come chiedo io sei dentro, altrimenti sei fuori.

La seconda delle tendenze che oggi, per Fukuyama, sta mettendo in serio pericolo la sopravvivenza del sistema liberale si situa in quello che lui chiama controidentitarismo di stampo conservatore e reazionario, che attorno alla figura del leader repubblicano Donald Trump – ma in Europa attorno a Orbán, Salvini, Meloni e altri, o nella fascinazione per la figura di Putin – si è coagulato rapidamente, nell’arco di pochi anni, unificando tutti coloro che si considerano vittima sia del sistema liberale, sia delle stesse identity politics. I maschi bianchi delle zone rurali, innanzitutto. Pur sensibili al generico razzismo bianco che è parte della cultura americana, pochi di loro, per il politologo, erano praticanti di visioni concretamente razziste. La maggior parte ha invece sviluppato nel corso di pochi anni una forma di vittimismo di stampo nuovo, controidentitario, nel momento in cui le politiche neoliberiste estreme degli ultimi decenni, identificate sia con Washington sia con la società d’élite degli Stati costieri a est e ovest, hanno causato un impoverimento economico e sociale importante nelle zone della working class bianca o mista. Il simbolo di questo dramma umano è nell’esplosione di nuove dipendenze come quella da oppioidi. Una realtà drammatica che in Europa è tuttora poco conosciuta, e che ha ucciso nel solo 2021 oltre centomila statunitensi. Come ben racconta la serie TV Dopesick, protagonisti Micheal Keaton e Rosario Dawson, l’epidemia da oppioidi ha avuto inizio proprio fra i lavoratori bianchi dell’Appalachia, cui venne proposta una nuova cura ingannevole per gli infortuni o i dolori cronici dovuti al lavoro.

Che un newyorchese e miliardario sia riuscito a farsi portavoce di disagi e sofferenze di cui non ha la minima cognizione diretta, rappresenta solo apparentemente un paradosso. Il controidentitarismo di destra americano, come l’identitarismo di sinistra, si basano sulla ribellione all’ideologia liberale ma non possiedono un connotato né tantomeno poggiano su una coscienza di classe, né su un’analisi conflittuale delle condizioni materiali in vista di proposte di cambiamento. Si nutre invece del senso di rivalsa verso l’ideologia liberal-democratica – il “potere” genericamente inteso – vissuto dalle popolazioni rurali chiuse nel loro revanchismo di maggioranza, in un caso, e dalla classe borghese universitaria indebitata e precaria che si identifica nelle minoranze, nell’altro. Il risultato è che da entrambi i raggruppamenti umani oggi provengono attacchi alla possibilità stessa che la democrazia liberale sopravviva; i seguaci delle identity politics progressiste si mettono attivamente e continuamente di traverso all’esercizio della libertà di espressione e parola e della diversità di pensiero, praticando costanti atti di intimidazione sociale verso chi esprime idee e visioni che dall’interno dei gruppi identitari vengono considerate una messa in pericolo dei soggetti vulnerabili. Non perché violente o discriminatorie, ma perché non convalidanti la visione che tali gruppi di persone promuovono di sé (e quindi degli altri diversi da sé); su un piano diverso, e nell’immediato molto più pericoloso, i seguaci del controidentitarismo incarnato da Trump si stanno dimostrando disposti a seguirlo e sostenerlo persino nelle sue più violente ed eversive rivendicazioni di potere, come avvenuto all’indomani delle elezioni presidenziali del 2020.

Nel suo classico del 1992, Fukuyama individua, seguendo Hegel e alcuni suoi interpreti, il bisogno di riconoscimento da parte dell’altro come uno dei motori spirituali della storia e delle energie umane nella storia. Ammette che il liberalismo abbia inizialmente proclamato il suo universalismo negando di fatto l’ammissione alla schiatta degli “uguali” a una larga fetta dell’umanità, ma ritiene che uno dei punti di forza della filosofia liberale sia la sua capacità di emendarsi e ampliare gradualmente la cerchia dell’umanità che trae vantaggio dalla libertà democratica. Un’uguaglianza progressiva. Se Fukuyama avesse letto una delle critiche più acute e profonde alla dialettica servo/padrone, quella espressa nel 1970 in “Sputiamo su Hegel” dalla femminista italiana Carla Lonzi (di cui in questi giorni ricorre il quarantennale della morte), forse avrebbe problematizzato maggiormente alcune sue premesse. «L’uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella fra uomo e donna è la differenza di base dell’umanità». Lonzi contestava la visione della dialettica servo-padrone così come era stata fatta propria dal marxismo, la riteneva una «regolazione di conti tra collettivi di uomini» e un «rapporto interno al mondo umano maschile» che aveva escluso il sesso femminile sia dalla visione delle classi in lotta e delle loro prospettive, sia dalla fenomenologia dello spirito. Anticipando ciò che in seguito sarà sviluppato dalla storica femminista Silvia Federici, Lonzi si chiede: «Perché non si è visto il rapporto della donna con la produzione mediante la sua attività di ricostituzione delle forze-lavoro nella famiglia? Perché non si è visto nel suo sfruttamento all’interno della famiglia una funzione essenziale al sistema dell’accumulo di capitale? Affidando il futuro rivoluzionario alla classe operaia il marxismo ha ignorato la donna come oppressa e come portatrice di futuro; ha espresso una teoria rivoluzionaria dalla matrice di una cultura patriarcale».

Secondo Fukuyama il liberalismo rappresenta lo stadio finale della dialettica servo-padrone, vincente rispetto all’interpretazione marxista. È lo stadio della pacificazione, in cui il servo non è più servo e il padrone non smette di essere padrone, ma razionalizza il suo bisogno di affermazione proiettandolo sulla sfera economica. Lonzi accusa l’hegelismo – punta il dito soprattutto sulla derivazione marxista, ma altrettanto si può dire di quella liberista – di escludere dalla Storia i soggetti estranei alla dialettica: ignora le donne e ignora le soggettività che non rispondono al paradigma originario a partire dal quale si è postulata l’universalità e la direzionalità della Storia stessa, quello dei maschi bianchi proprietari e dei loro servi, i lavoratori. È la stessa aporia che fu segnalata da Olympe de Gouges nel momento stesso in cui vedeva la luce, in Francia, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: la donna, all’interno di quel documento, non si trovava fra i proprietari, ma fra le proprietà. Così è per i giovani, non a caso avanguardia delle politiche identitarie e di ogni contestazione al sistema liberale da decenni a questa parte (interessante in questo senso come Fukuyama liquidi il ’68 come una sostanziale espressione di noia giovanile); e così fu per quell’ambiente naturale privo di valore nella visione hegeliana che il liberalismo pretendeva e tuttora pretende di dominare senza rispettare; senza vedere il pericolo che ha provocato, alla vita umana stessa, aver espulso la natura e l’ecosistema dall’ordine dei soggetti magari non coscienti, ma sicuramente vivi e perciò dinamici con i quali è necessario relazionarsi, includendoli nella Storia.

Il liberalismo ha scontentato coloro ai quali per statuto faceva promesse che non ha mantenuto – i maschi bianchi proprietari – suscitando una reazione revanchista e rabbiosa di tipo illiberale come quella che oggi si vede in larga parte delle società occidentali, fra i trumpiani e i sovranisti che si rivendicano come traditi dalla società democratica; ma il suo vulnus originario, ben più grave e profondo, è quello di essersi fondato a partire da un’idea di umanità che proclamandosi universale, in realtà non faceva che riperpetuare il vizio originario di ogni comunità umana dalla notte dei tempi, ovvero definire “umanità” il proprio gruppo parziale, e situare fuori dall’umanità ogni elemento ritenuto strumento e non soggetto, mezzo e non fine per dirla con Kant. A un’aporia simile non si può semplicemente apportare correttivi per approssimazioni successive come ha preteso di fare il sistema liberale e come suggerisce lo stesso Fukuyama, includendo nell’impronta dei maschi bianchi proprietari via via le donne, i neri, i giovani, le specie animali e vegetali. Un tale escamotage rappresenta infatti un’ennesima azione unilaterale, destinata a produrre senso di mortificazione e annichilimento delle diversità originariamente non riconosciute, perciò ulteriore revanchismo. È necessario fare i conti con il fallimento, irreversibile, di un paradigma filosofico, e individuarne uno diverso e migliore che non rinunci a prendere le mosse da una condizione umana universale, ma sappia abbracciare il valore della diversità come consustanziale, non accessorio, all’universalità stessa. Per riuscirci, non basta apportare i correttivi ai principi liberali che Fukuyama, in conclusione del suo libro, suggerisce: redistribuzione del reddito e sussidiarietà in modo da bilanciare parzialmente le disuguaglianze materiali, difesa della libertà d’espressione, moderazione nelle pretese del neoliberismo. Sono paletti importanti per arginare la crisi, ma se le minacce che oggi arrivano al sistema liberale sorgono dalle contraddizioni originarie del sistema liberale stesso, è a quelle che bisogna avere il coraggio di guardare. Non solo difendere il liberalismo democratico ma avere il coraggio di ripensarlo radicalmente verso un’idea di umanità finalmente libera dall’androcentrismo originario, aperta alle sue differenze e al rapporto con le ancora più ampie e affascinanti differenze presenti nell’ecosistema.


(MicroMega, 12 agosto 2022)

Print Friendly, PDF & Email