di Ludovica Eugenio, 15 giugno 2018
Parigi – ADISTA. È ancora in gran parte sotterraneo, parlarne è ancora un enorme tabù. Forse l’ultimo. Ma esiste, e lentamente, caso dopo caso, le vittime cominciano a superare le resistenze e a liberarsi da questo fardello pesantissimo. È il fenomeno degli abusi sessuali sulle religiose, versante ancora poco noto di una piaga che sembra senza fondo, in gran parte nascosto per le dinamiche di controllo e di potere che causano omertà e senso di colpa. Sono abusi sessuali perpetrati spesso su donne fragili e vulnerabili da uomini in posizione di superiorità gerarchica, ma non di rado anche da consorelle o superiore, e che restano sepolti nella coscienza per decenni; spesso, se una vittima riesce a parlarne, lo fa dopo aver abbandonato la vita consacrata, dopo aver trovato la forza di ricominciare un’altra esistenza. In questi ultimi anni, tuttavia, sempre più frequenti sono le denunce, anche se spesso si tratta di casi ormai prescritti
Si tratta comunque della punta di un iceberg dalle dimensioni ancora sconosciute, diffuso in tutto il mondo e che si è iniziato a intravedere nel lontano 2001, quando grazie al settimanale statunitense National Catholic Reporter furono pubblicati quattro documenti strettamente confidenziali; tra questi, uno del 1998 a firma di suor Marie Mc Donald e l’altro del 1995, di suor Maria O’ Donohue – all’epoca coordinatrice dei programmi sull’Aids per conto della Caritas Internationalis e dell’agenzia Cafod (Fondo cattolico per lo sviluppo oltremare) (v. Adista nn. 24, 26, 27, 30, 36, 37 e 42/01) – consegnato al card. Martinez Somalo, allora prefetto della Congregazione vaticana per la Vita Consacrata. Erano rapporti in cui si parlava di suore sfruttate sessualmente, sedotte e spesso violentate da preti e missionari in quanto considerate “sicure” dal punto di vista sanitario. Sul problema è poi tornata in tempi più recenti, nel 2015, la teologa congolese suor Rita Mboshu Kongo, docente alla Pontificia Università Urbaniana, in un seminario internazionale dal titolo «La Chiesa di fronte alla condizione delle donne oggi», promosso dal mensile Donna Chiesa Mondo, supplemento dell’Osservatore Romano (v. Adista Notizie n. 22/15). In Africa, denunciò con forza suor Rita, ci sono suore costrette a “vendersi”, abusate da ecclesiastici e poi abbandonate dalle loro stesse congregazioni.
Quasi un incesto
Ora la questione è stata sollevata dal quotidiano Le Parisien (11/6) al quale alcune vittime, fuoriuscite dalla propria congregazione religiosa, hanno affidato la propria storia, per un’inchiesta sul tema firmata da Vincent Mongaillard. «È la prova che si tratta di un fenomeno molto più ampio. Se le religiose liberano totalmente la parola, può emergere uno scandalo enorme», osserva François Devaux, presidente dell’associazione di vittime di abusi nella Chiesa La parole libérée, nata per dare sostegno alle vittime del prete pedofilo padre Preynat di Lione (v. Adista Notizie nn. 8, 12, 13, 15, 29/16). E l’11 giugno scorso, a Parigi, la Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia (Corref) ha dedicato una giornata proprio al tema degli abusi sessuali: «Quando un religioso aggredisce una religiosa, oltre a una violenza fisica e psichica estrema c’è una violenza spirituale. L’aggressore spezza il corpo, spezza il nucleo più intimo della fede di una persona nel suo rapporto con Dio», è la denuncia della presidente della Corref, suor Véronique Margron, che invita le vittime a parlare e a «far risalire la parola dal fondo della tomba». Si tratta, per l’abuso consumato in questo contesto, di una sorta di «incesto», come lo ha definito la psichiatra Muriel Salmona, presidente dell’associazione Mémoire traumatique: «Là dove le suore dovrebbero essere più al sicuro, sono esposte». Soprattutto le più vulnerabili, ad esempio quelle che hanno già subìto un abuso in passato e hanno una immagine di sé del tutto negativa. Perché la scelta delle vittime non è certo casuale, e maggiore è l’influenza esercitata sulla religiosa, meno la parola si libera e più i predatori sono “al sicuro”, spiega Devaux. Grave responsabilità, poi, è quella della struttura organizzativa delle comunità religiose: «Ognuno degli istituti è autonomo nel suo governo ed è legato al diritto pontificio, a Roma», per cui l’indipendenza dalle diocesi è un altro elemento che favorisce la legge del silenzio.
La storia di “Christelle”
Tra i casi cui Le Parisien fa riferimento c’è quello di “Christelle”, ex religiosa, oggi insegnante, che non riesce più ad avvicinarsi a un prete, a confessarsi, persino a partecipare alla messa domenicale. Lo scorso autunno ha presentato una denuncia per violenza e aggressioni sessuali avvenute nel 2010-2011. La sua è una storia “da manuale”, fatta di vulnerabilità, manipolazione, dipendenza emotiva e spirituale, ricatto, sensi di colpa. All’epoca, racconta, subiva «l’influenza» di “Jean”, prete della sua congregazione conosciuto nel 2004. «Ci era stato raccomandato come un grande e santo predicatore», ed era divenuto una sorta di «fratello spirituale» e di confidente, in un contesto nel quale il suo rapporto con le consorelle, tutte molto più anziane di lei, è molto teso. Nel 2007 la relazione prende un’altra piega: «Al momento di salutarsi in parlatorio ha cercato di baciarmi. Di fronte al mio sguardo sconvolto, mi ha chiesto scusa». Il prete prende le distanze: «Sono crollata, era il mio unico sostegno». Nel 2010, in un periodo in cui sente di aver smarrito la propria direzione spirituale, si ha un riavvicinamento: «Era l’ultima persona che mi restava, aveva un’aura e un’autorevolezza, poteva aiutarmi a trovare il mio posto nella Chiesa», era ciò che si raccontava al tempo. Ma negli incontri i gesti dell’uomo si sono fatti «sempre più inappropriati»: «Ogni volta gli dicevo di no, ma lui continuava. A ogni sbandamento si mostrava pentito. Fino al giorno in cui mi ha violentata. Non era capace di controllarsi, sopraffatto dalle sue pulsioni». L’ex-religiosa assiste a una sorta di «sdoppiamento della personalità»: «È perverso. Mi colpevolizzava sempre. Per esempio, quando aveva cercato di baciarmi, mi aveva rinfacciato: “Non mi hai dato uno schiaffo, quindi ne avevi voglia”. Altre volte si comportava bene e pensavo: “Vedi, le mie preghiere servono a qualcosa”». In ogni caso, conferma l’avvocato di “Christelle”, si è sentita manipolata in un momento di vulnerabilità. Quando poi, nel 2011, “Jean” ha ricevuto un incarico all’estero, la religiosa è riuscita a sottrarsi al meccanismo di dipendenza, pur distrutta: «Ero uno straccio, ho pensato di suicidarmi».
La sua rinascita, ricostruisce Le Parisien, passa attraverso l’allontanamento dalla vita religiosa e la giustizia. Dopo aver saputo che il suo aggressore era stato promosso nonostante ne avesse segnalato le azioni alla gerarchia ecclesiastica, nel 2017 ha deciso di rivolgersi al procuratore della Repubblica. Il religioso – che nega tutte le accuse – è stato sottoposto a una procedura canonica che gli ha vietato di svolgere attività esterne alla comunità. «Ho avuto legami affettivi ma nulla di sessuale. È una storia d’amore casta. Io l’ho interrotta e lei ne è rimasta ferita», è la sua difesa. Il suo superiore lo sostiene: «Penso che vi sia una relazione tra due adulti consenzienti», ha detto. Però, quando ha saputo che era stata sporta una denuncia, quest’ultimo ha contattato “Christelle” telefonicamente per «vedere se c’era modo di accordarsi diversamente»: «Se posso fare qualcosa per te…», le ha detto. La telefonata è stata registrata.
Rompere il silenzio
«Un predatore procede in tre tappe: fascinazione, occupazione progressiva di terreno spingendo oltre i limiti; riprogrammazione»: padre Pierre Vignon, prete della diocesi di Valence, giudice del tribunale ecclesiastico di Lione, spiega su Le Parisien le dinamiche della manipolazione e del silenzio che creano il contesto per l’abuso delle religiose. Quando una suora è “riprogrammata”, si ritrova incastrata nel meccanismo che l’aggressore ha messo a punto per convincerla della colpevolezza, ritorta contro di lei. La “deprogrammazione” richiede «una personalità forte», che si sottragga al meccanismo, per arrivare alla denuncia. Ma i primi a sottrarsi alla denuncia sono i vescovi, interrogati sul fenomeno: «Quelli che consideravo coraggiosi si sono tutti defilati con un artificio ecclesiastico consumato: “Non posso dire niente perché non so niente”», spiega p. Vignon, traendone la conclusione che la Chiesa non si è ancora presa carico di queste storie. Per evitare questi drammi devastanti, «bisogna parlare. E per farlo, bisogna uscire da un difetto che ricorre negli ambienti religiosi. Esiste talvolta un infantilismo psicologico che consiste nel non chiamare il male per nome. Si confonde il male con l’idea del male. Mi spiego: dei genitori devono mettere in guardia una figlia preadolescente, e anche prima, dei pericoli che corre. Se è stata messa in guardia, saprà riconoscere il male quando si presenterà e saprà difendersi. Se non si parla mai “di quelle cose”, la ragazza è sprovveduta e può diventare una vittima. Lo stesso vale per la vita religiosa. Una superiora e delle religiose intelligenti pregheranno il predatore di tenersi a distanza e lo denunceranno se tenta di superare i limiti».
In ogni caso, è molto importante che questo ennesimo vaso di Pandora si stia scoperchiando. «Ma si è solo all’inizio. Se una religiosa arriva a capire che non è lei la colpevole, non è lei ad aver sbagliato, ma il religioso perverso che ha abusato della situazione, sarà più coraggiosa nel denunciarlo. I carnefici avranno la vita molto più difficile se le vittime non solo parlano, ma si uniscono tra loro per difendersi». Una campagna #metoo per le religiose è alle porte?