26 Giugno 2020
La Stampa

Taty, la Madre di Plaza de Mayo che a 90 anni non può morire: “Aspetto la verità su mio figlio”

di Filippo Femia


Con centinaia di donne chiede da 43 anni di ottenere i resti dei desaparecidos argentini scomparsi durante la dittatura


Domenica soffierà sulle 90 candeline ed esprimerà lo stesso desiderio che ripete da 45 anni: «Chiederò a Dio di non andarmene prima di aver recuperato i resti del mio Alejandro, fosse anche solo qualche ossa». Così Taty Almeida potrebbe trovare un po’ di pace e un senso alla sua lotta: «A novant’anni avrei finalmente un posto dove andare a pregare», racconta con la sua voce roca e dolce al tempo stesso, da Buenos Aires.

Taty Almeida è nata il 28 giugno 1930 nella capitale argentina. È un simbolo delle Madres di Plaza de Mayo, le mamme dei desaparecidos che da quarantatré anni marciano per chiedere verità e giustizia. Sotto la pioggia, con il freddo, aggrappate a bastoni o costrette in carrozzina, ogni giovedì dal 1977 sfilano nella piazza di fronte alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale. Soltanto la pandemia le ha fermate. I loro figli sono le vittime di una delle pagine più buie del ’900: studenti, sindacalisti, professori e militanti torturati, uccisi e fatti sparire.

Alcuni corpi sono stati restituiti dal Rio de la Plata dopo essere stati gettati nell’Atlantico, ancora vivi, durante i «voli della morte». Altri resti sono stati recuperati da fosse comuni. Quei giovani, alcuni poco più che adolescenti, erano la «minaccia comunista» che i militari arrivati al potere dopo il golpe del 24 marzo 1976 promettevano di combattere. «Siamo qui per difendere l’Argentina», annunciarono trionfalmente. Insanguinarono un Paese, seminando il terrore: un’intera generazione venne cancellata, decine di migliaia di persone scelsero l’esilio.

«Molti di loro erano semplicemente ragazzi che sognavano e lottarono per una società più giusta. Quel desiderio è costato loro la vita», spiega Taty. Il suo Alejandro è scomparso nel nulla il 17 giugno del ’75. «Al potere c’era il governo costituzionale di Isabel Perón. È la prova che il terrorismo di Stato è iniziato prima del golpe del 1976», tuona Taty, come se fosse in tribunale durante un’arringa. Eppure quel giorno di marzo, quando le frequenze di Radio Nacional diffusero il primo comunicato della Giunta, Taty esultò. «La mia era una famiglia di gorilas (termine dispregiativo per i militari, ndr). Ero convinta che i colleghi e gli amici di mio padre arrivati al potere mi avrebbero restituito Alejandro. Che sciocca…», sorride.

Cresciuta in un ambiente molto conservatore, non aveva il minimo sospetto che il figlio fosse un militante di sinistra. «Lui non me lo disse mai, per proteggermi. Un giorno – ricorda – vidi una stella disegnata su un suo quaderno: era il simbolo dell’Erp (Ejército revolucionario del pueblo, guerriglia di ispirazione marxista, ndr). Io lo ignoravo e gli chiesi: “È la stella di David?”. Mi strinse forte, sorrise, e mi disse: “Ti voglio bene, anche se sei una gorila di m…”».

Taty, come altre madres, ripete spesso la frase «È stato mio figlio a partorire me» e racconta di aver vissuto due vite: «Nella prima ero come in una bolla, poi sono stata costretta ad aprire gli occhi». Le Madres di Plaza de Mayo sono state la prima tessera della sua nuova esistenza, trasformandosi in una seconda famiglia. Ma, arrivando da ambienti militari, non si avvicinò immediatamente. «Avevo paura – ricorda -. Temevo pensassero che fossi una spia». Poi, un giorno del 1980, si decise e bussò alla porta dell’associazione in calle Uruguay. Le atrocità dei militari non erano più un segreto, anche se due anni prima il regime aveva organizzato i Mondiali di calcio per ripulirsi l’immagine. «I miei timori svanirono subito. Appena entrata nella casa delle Madres vidi le foto di giovani scomparsi e pensai “non sono l’unica”», racconta. La sua tragedia era identica a quella di centinaia di altre mamme: raccontando la sua, per la prima volta dalla scomparsa del figlio, provò un enorme sollievo. «Mi accettarono subito. In quel momento ti facevano una sola domanda: “Chi è scomparso?”. Il resto non aveva importanza».

Il rito successivo fu la prima marcia in Plaza de Mayo. Le «adunate» di più di tre persone erano proibite e quando un militare si avvicinò per allontanarle, le donne iniziarono a camminare in cerchio. Nacque così la marcia del giovedì, con il pañuelo bianco in testa. Poi arrivarono le foto dei figli desaparecidos appese al collo e gli striscioni contro la dittatura. Da allora non si sono più fermate.

All’inizio dovettero ingoiare gli insulti e i ghigni dei soldati, i sospetti della gente comune: «I loro figli avranno pur fatto qualcosa per finire in quel modo», bisbigliavano. Locas, le chiamavano. «Certo, eravamo pazze. Pazze di dolore – dice Taty -. E anche perché sfidare i militari era pericoloso: più di una madre e alcune suore che ci sostenevano sono state fatte sparire». Da allora Taty ha partecipato a tutte le marce, alle udienze in tribunale che hanno condannato i militari e non ha nessuna intenzione di fermarsi.

«Finché avrò la forza di respirare, continuerò a scendere in piazza per chiedere giustizia e verità». Al suo fianco ci sono migliaia di giovani, pronti a raccogliere l’eredità delle Madres. «Molte di noi sono in carrozzina, altre camminano solo con il bastone. Ma siamo tranquille: ci sono nuove generazioni splendide, militanti che lotteranno nel nostro nome e in quello dei nostri figli».

Anche perché in Argentina c’è ancora chi nega i numeri delle persone scomparse per mano della dittatura: «Sono soltanto idioti, complici dei genocidi – si infervora Taty -. I desaparecidos non sono 30mila? Abbiamo chiesto più volte di dimostrarlo, ma nessuno ha mai risposto».

Taty ha quattro nipoti e due bis-nipoti, di cui snocciola i nomi con orgoglio. Dal 2007 è cittadina onoraria di Torino, città scelta da molti argentini per l’esilio. Il suo rapporto con l’Italia, dice, è speciale. «Non solo perché è un Paese splendido. Ma la vera ragione è che i magistrati italiani hanno processato i responsabili della dittatura argentina quando a Buenos Aires la legge di amnistia garantiva loro l’immunità».

Quando le chiediamo quale sia il suo segreto per arrivare a novant’anni, sorride e risponde d’istinto: «Non mi sono mai lasciata consumare dall’odio e dal dolore. Ho trasformato la rabbia in lotta. E poi ho un rapporto splendido con i giovani: mi trasmettono un’energia unica. Negli incontri pubblici si avvicinano per ringraziarmi, ma sono io a ringraziare loro».

Le speranze di Taty e di tante altre madri sono affidate agli antropologi forensi che cercano di identificare i resti di figli e nipoti desaparecidos. Ancora oggi i test del Dna restituiscono la vera identità ad alcuni figli strappati ai genitori legittimi durante gli anni neri della dittatura e affidati a famiglie vicine ai militari. Persone che da un giorno all’altro scoprono di aver vissuto nella menzogna. Ogni nipote o figlio «ritrovato» viene festeggiato dalle Madres. Taty aspetta il suo turno senza perdere la speranza. «In fondo non chiedo tanto: un resto, uno solo, del mio Alejandro per seppellirlo e avere un posto dove portargli un fiore».


(La Stampa, 26 giugno 2020)

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