di Paola Cavallari
Minoo Mirshahvalad è ricercatrice presso la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. Si occupa di diritto sciita, immigrazione e rapporti di genere in Italia e in Iran.
Può parlarci dell’immagine straordinariamente potente delle giovani manifestanti che rischiano la vita perché non vogliono portare il velo?
In queste settimane l’Iran ha testimoniato la tortura, lo stupro e l’uccisione di numerosi giovanissimi donne e uomini; un crimine perpetrato dalla teocrazia che lascerà una perenne cicatrice sulla memoria del mondo. Gli studenti presi di mira con colpi di bastone o buttati giù dai palazzi diventano il simbolo di un plurisecolare debito che noi iraniani avevamo nei confronti dello sciismo. In queste settimane l’Iran, ma anche l’Afghanistan, sono teatro di novità straordinariamente ricche dal punto di vista sociologico. Le rivoluzioni hanno sempre componenti inaspettate che prendono di sorpresa anche i più attenti sociologi. Malgrado il blocco plurisettimanale di internet in Iran, sulla rete si trovano i video delle studenti iraniane delle scuole medie che sventolando il velo corrono contro le forze dell’ordine senza armi, mentre insultano uomini armati che le picchiano e gli sparano contro. Sono sbalordita di tali coraggio e rabbia senza precedenti nella storia del paese. È vero che per quattro decadi dopo la Rivoluzione del ’79 le donne iraniane hanno coltivato dentro di sé un furore inaudito, ma per ora non so darmi spiegazioni su perché e come la generazione degli attuali adolescenti si senta così profondamente partecipe di questo rancore. È un evento che per la sua violenza e l’audacia delle protagoniste evoca la Rivoluzione francese, lanciato però dalle donne con il sostegno sorprendente degli uomini.
Che rapporto c’è tra il velo e la libertà per le donne iraniane?
Bisogna specificare un punto cruciale. Il Corano non ha mai parlato della copertura della testa della donna. Tuttavia, il velo per una serie di motivi sociopolitici ampiamente discussi nella letteratura esistente, è diventato un elemento fortemente identitario con connotazioni politiche. Il fatto che l’imposizione del velo cozzi con la libertà della donna non deriva dall’eventuale calore che lei dovrebbe sopportare d’estate o dell’eventuale peso di un pezzo di stoffa. Il problema è sentirsi ridotte all’oggetto della propaganda politica senza essere disponibili. Chi fa la modella è consenziente e, più importante ancora, remunerata per quella mansione. La donna iraniana non è né consenziente, né retribuita per essere il veicolo di un messaggio, politico o commerciale che sia.
Non solo in Iran, ma in altre realtà le religioni sono ridiventate platealmente strumento politico, incardinato su un fondamento patriarcale. Molti/e giornalisti e politici denunciano la teocrazia iraniana, ma non ne traggono le conseguenze di un dominio patriarcale.
La teocrazia è la più brutale truffa che l’essere umano abbia mai creato. Questa mira a perpetuare la subordinazione di quei ceti sociali che, per il loro aspetto minoritario, non hanno potuto costruire legami di «parentela» con il presunto Dio che governa. Nel mondo islamico, sin dal settimo secolo del calendario gregoriano, i «vicari» di Dio o del profeta sono stati sempre gli uomini. Nel mondo sciita, dopo una serie di lunghe evoluzioni giuridiche, l’istituto clericale (inaccessibile alla donna) è riuscito a spacciarsi per il vicario di Dio. Dunque, visto che Dio avrebbe bisogno di un qualche rappresentante per governare l’umanità e considerando la mascolinità di questa presunta rappresentanza nel mondo islamico, è chiaro che il patriarcato e la teocrazia vanno a braccetto. Di questa collaborazione la memoria italiana ha una lunga traccia, tuttavia, il ceto dirigente assieme agli organi di propaganda continuano a essere prevalentemente diretti dagli uomini. Non è difficile vedere le conseguenze.
Donna, vita, libertà: come commenta questo slogan?
Lo slogan è originariamente lanciato dal movimento di liberazione curdo e sembra sia stato coniato da Abdullah Öcalan (il presidente del Pkk, ndr). È uno slogan assai progressista che sancisce un rapporto diretto tra la donna e la libertà. Si basa sulla convinzione che la liberazione della donna sia la pietra miliare per la liberazione di tutta la società. Questa idea è stata felicemente formulata da Öcalan e promossa dalle attiviste curde. Mahsa Amini, il simbolo delle attuali rivolte, era curda e quindi l’adozione di questo slogan mi sembra molto opportuno e tempestivo.
In Europa si espande l’ondata di conservatorismo, di cui uno dei cardini è il rilancio della famiglia tradizionale che conferisce alla donna un ruolo «centrale e insostituibile». Vede qualche legame?
In Europa occidentale sin dalla Prima guerra mondiale si continua a nutrire una particolare nostalgia per un passato presunto ordinato e sensato che con «l’invasione» della modernità è stato compromesso. Un passato in cui il rapporto di genere, la famiglia e l’autorità avevano definizioni plurisecolare e quindi ben stabilite. Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II siamo richiamati alla «rivolta contro il mondo moderno». Oggi per alcune frange del conservatorismo europeo, gli Stati autoritari – come quello iraniano – sono paradigmatici e purtroppo, in Italia, questo conservatorismo richiama il ritorno al passato spalleggiando il fondamentalismo islamico. La conseguenza del ritorno trionfale del conservatorismo in Europa, che con la crisi della spiritualità fa pure un numero considerevole di proseliti, ahimè, affligge sia il Medio Oriente che l’Europa stessa.
(il manifesto, 8 ottobre 2022)