21 Marzo 2024
Avvenire

Terzo anno senza scuola per le ragazze afghane. Noi non le dimentichiamo

di Antonella Mariani


Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti – nessuno dei quali ritirato – che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato frequentare i corsi universitari, vietato praticare sport, vietato entrare in bagni pubblici, musei, palestre, parchi o saloni di bellezza, vietato lavorare fuori casa e per le organizzazioni non governative straniere, vietato viaggiare se non con un parente stretto, vietato mostrarsi in pubblico senza il burqa… Il risultato è un apartheid di genere senza precedenti, che genera nelle ragazze ansia e frustrazione, senso di ingiustizia e depressione. Se le più piccole hanno ancora una speranza, seppur lieve, di potere in futuro tornare in classe, le più grandi vedono sfuggire, anno dopo anno, ogni prospettiva non solo di emancipazione e di indipendenza, ma di crescita. Gli osservatori assistono impotenti a un aumento di suicidi giovanili, di matrimoni e di parti precoci. Si tratta di un dramma che colpisce un’intera generazione, ma anche di una grave ipoteca sul futuro del Paese, privato non solo oggi ma per i decenni a venire di metà delle sue risorse intellettuali e professionali. Se il bando all’istruzione secondaria e universitaria femminile durerà ancora a lungo, si creerà un fossato difficilmente recuperabile, se non con il rapido ritorno in patria degli esuli, appartenenti all’ex élite afghana istruita e produttiva del Paese nel ventennio dell’occupazione occidentale.

«L’istruzione è essenziale per la pace e la prosperità» si limita a scrivere su X la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), invitando il governo taleban a porre fine a «questo divieto ingiustificabile e dannoso». Da due anni e mezzo gli organismi internazionali e le diplomazie occidentali – che non riconoscono l’Emirato islamico ­- sono impegnati ad aprire spiragli di dialogo con i taleban, più recettivi su altri punti (ad esempio la cooperazione umanitaria: si calcola che il 50% della popolazione viva una condizione di estrema povertà e decine di ong operano sul territorio), ma completamente sordo su questo. Uno scenario che i taleban stanno profilando è quello di allestire nuove scuole coraniche per le ragazze, sul modello delle madrasse in cui generazioni di giovani maschi sono stati educati a una visione estremista e distorta dell’islam. L’Onu ha documentato l’esistenza di 7.000 madrasse, di cui 400 femminili, dove la frequenza è senza limitazioni di età; nel 2023 i taleban hanno lanciato una campagna di reclutamento per 100mila nuovi insegnanti. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da una parte le ragazze hanno la prospettiva di uscire di casa e spezzare l’isolamento, dall’altra c’è il rischio concreto di una ulteriore radicalizzazione a lungo termine del Paese. Un altro triste scenario nel Paese più triste del mondo, dove per le femmine la campanella non suona più.


(Avvenire, 21 marzo 2024)

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