19 Dicembre 2021
L’Espresso

Tina Merlin, la Cassandra del Vajont

di Francesca De Sanctis


Figlia di contadini, partigiana, cronista. Sull’Unità la giornalista aveva previsto il disastro e denunciato i responsabili. Il ricordo a trent’anni dalla morte


Fu fin troppo facile soprannominarla “la Cassandra del Vajont” quando il 9 ottobre del 1963 una frana fece esondare la diga causando la morte di oltre duemila persone. Tina Merlin, giornalista de l’Unità, aveva previsto tutto. Così come Cassandra aveva preannunciato il rapimento di Elena e la successiva caduta di Troia, lei aveva scritto che il monte Toc avrebbe ceduto e che tutta la valle era in pericolo. Ma a differenza della sacerdotessa di Apollo, Tina Merlin, che in realtà detestava essere chiamata “la Cassandra del Vajont”, non aveva il dono della preveggenza. Quella del Vajont non fu una “tragedia naturale”, come scrissero Montanelli, Bocca, Buzzati. Per quattro anni Tina Merlin aveva denunciato gli affari della Sade (la società elettrica che progettò la diga), aveva raccontato del ventre marcio di una «montagna che cammina», aveva scritto del terreno argilloso, dei boati, dei sismi e delle frane, aveva ascoltato gli abitanti di Erto, Casso, Longarone, aveva dato voce alle loro proteste e alle loro paure. Articolo dopo articolo, per quattro anni. Tutti sapevano, ma nessuno fece nulla. Certo, la Sade era il potere, e come diceva Tina Merlin, il potere comanda. Altro che fatalità, dunque. Mai tragedia fu più annunciata. Ma non era facile per una donna, comunista, corrispondente (precaria) dell’Unità dalla provincia di Belluno, farsi ascoltare. Persino convincere i suoi colleghi romani ad ottenere la prima pagina era un’impresa.

Tina Merlin però un dono ce l’aveva, e non era quello della preveggenza, come dicevamo: lei sapeva stare in mezzo alle persone. Aveva a cuore la sorte della sua gente ed era animata da un forte sentimento di ribellione contro ogni forma di ingiustizia, un istinto indomabile in difesa di operai, emigrati e soprattutto donne, considerate inferiori senza che lei riuscisse a capirne il perché. Nelle fotografie in bianco e nero, la vediamo spesso con i suoi strumenti di lavoro inseparabili: penna e taccuino, in mezzo al fumo delle sigarette. Era molto bella, ma non aveva un carattere facile. La sua durezza le derivava probabilmente dalla vita difficile che aveva avuto, scandita da sacrifici, povertà e lutti. Aveva tanti amici, certo. Ma anche tanti nemici, proprio per questo suo voler sempre manifestare apertamente ciò che non le andava giù, dai tedeschi ai burocrati del Pci.

Le sue battaglie contro le ingiustizie della vita aveva iniziato a combatterle molto presto, dopo aver vissuto sulla sua pelle brucianti umiliazioni. Era nata il 19 agosto del 1926 a Trichiana, in provincia di Belluno, da una famiglia di contadini, e aveva capito sin da piccola cosa significava l’emarginazione. Aveva imparato a pascolare le mucche dopo la scuola, a zappare la terra, a fare da cameriera per le famiglie benestanti di Milano. E a 17 anni divenne staffetta nella brigata partigiana “7˚ alpini”. La Resistenza per lei non fu mai un capitolo chiuso, semmai una porta aperta verso la conoscenza del mondo. Sposò un partigiano, Aldo Sirena, con il quale ebbe un figlio che chiamò Toni, come il fratello anche lui partigiano che lei stimava tanto e che fu ucciso a poche ore da quel 25 aprile del 1945, giorno della Liberazione.

La vita stessa di Tina Merlin, dunque, è un racconto epico straordinario, documentato dal romanzo pubblicato postumo, La casa sulla Marteniga (Il Poligrafo di Padova, 1993), grazie all’aiuto di Mario Rigoni Stern. Tina frequentava anche altri scrittori, da Goffredo Parise a Gianni Rodari. D’altra parte amava scrivere – racconti, filastrocche, poesie – e fu proprio grazie a un premio letterario che arrivò all’Unità nel 1951.

Quando iniziò la sua collaborazione con il quotidiano fondato da Gramsci scriveva per la “Pagina delle donne” e correva su e giù per la provincia di Belluno a caccia di notizie. Era quasi una missione per lei. In quell’ambiente provinciale appariva rivoluzionario per una donna fare quel mestiere che era sinonimo di libertà, di indipendenza e quasi di libertinaggio. Del Vajont scrisse tanto. Prima, durante e dopo la tragedia. Fu perfino denunciata dalla Sade per uno dei suoi primi articoli e poi assolta. L’11 ottobre del 1963 sull’Unità parlò di «genocidio». Le tv straniere la intervistavano mentre in Italia continuavano a ignorarla. Solo 20 anni dopo riuscì a pubblicare il libro in cui raccontava nel dettaglio quello che era accaduto: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont (La Pietra, 1983). Nell’edizione del 2001 (Cierre Edizioni) firmano la prefazione Giampaolo Pansa e Marco Paolini, che rimase folgorato dalla lettura di questo libro e diede vita allo spettacolo-capolavoro Il racconto del Vajont. In effetti fu grazie al suo monologo, al film di Renzo Martinelli Vajont – La diga del disonore (con Laura Morante) e agli spettacoli di Patricia Zanco (A perdifiato, ritratto in piedi di Tina Merlin e Il Vajont dopo il Vajont) che la storia di Tina Merlin è diventata finalmente nota al pubblico.

Eppure, lei, della faccenda del Vajont non ha mai fatto una bandiera. Ricordo quando iniziai a lavorare all’Unità e mi presentarono Toni De Marchi. Mi dissero: «Lui ha lavorato con Tina Merlin». Fianco a fianco per lungo tempo. «Mi assunse nel 1975, negli anni in cui coordinava la redazione veneta», racconta De Marchi: «Stava cercando dei giornalisti e da comunista convinta ma insofferente alle logiche di partito, per evitare che le venissero imposti dei piccoli funzionari, chiese alle sezioni del Pci di Venezia se c’erano giovani interessati a intraprendere la strada del giornalismo. Il mio segretario segnalò me. Così mi ritrovai a lavorare con Tina Merlin senza sapere minimamente chi fosse. Mi sono sempre chiesto perché non veniva ben vista dal partito, poi ho capito: non faceva sconti a nessuno, si incavolava quando qualcosa non le piaceva, non era diplomatica. Era una donna dal carattere complicato e dalla vita straordinaria, che ho scoperto anni dopo perché ne parlava poco. Tina Merlin, più che una brava giornalista è stata una giornalista militante: si poneva problemi seri, dalle lotte operaie alla conquista dei diritti femminili».

Era una donna contro, come suggerisce anche il titolo della sua biografia, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, scritto da Adriana Lotto con la prefazione di Toni De Marchi (Cierre Edizioni, 2011). Oggi Adriana Lotto dirige l’associazione culturale intitolata alla giornalista, che a gennaio pubblicherà un Quaderno in cui verranno raccolte tutte le testimonianze di chi l’ha conosciuta. «Tina conservava una brutta copia di qualunque cosa scrivesse», racconta: «E noi abbiamo acquisito il suo archivio così come era, dai racconti scritti per il Pioniere alle lettere private. Le piaceva ascoltare gli altri, stare in mezzo alle persone, agli operai. Era la sua gente e lei era una di loro. Certo, pagava il fatto di essere donna e di essere una giornalista dell’Unità. Ma è sempre stata una donna contro le ipocrisie e la stupidità, per la giustizia». Chissà se il Comune di Belluno le dedicherà una statua come è stato proposto di recente dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Una cosa è certa, oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa avvenuta il 22 dicembre del 1991 in un letto di ospedale dopo un anno di malattia, vale la pena ascoltarla ancora la sua storia, la storia di una donna libera e ribelle che ha attraversato il Novecento senza stancarsi mai di lottare contro il potere, i pregiudizi e i diritti negati.


(L’Espresso, 19 dicembre 2021)

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