18 Ottobre 2020
Corriere della Sera

Un plebiscito nelle urne per la rivoluzione gentile (ma decisa) di Ardern

di Monica Ricci Sargentini 

Non sono stati tre anni facili per la Nuova Zelanda. L’attentato antiislamico di Christchurch, l’eruzione del vulcano di White Island, la storica sfida della pandemia che ha portato alla recessione più grave dalla Grande depressione. Eppure Jacinda Ardern, quarant’anni, ne è uscita tanto rafforzata da essere rieletta ieri con il 49% dei voti, un risultato che il Labour party non otteneva da decenni e che le consentirà di formare, se lo vorrà, un governo monocolore, cosa che in Nuova Zelanda non accadeva dal 1993.

È stato proprio il piglio tranquillo ma fermo della premier nel gestire le crisi del Paese che ha conquistato i cittadini: «È nei momenti duri che diamo il meglio di noi. Siamo stati in grado di saltare ostacoli giganteschi e affrontare enormi sfide perché siamo quelli che siamo e perché avevamo un piano» ha detto lei qualche mese fa. L’ultimo successo Ardern l’ha raccolto nella battaglia contro il coronavirus che ha combattuto insieme alla popolazione: «Noi siamo una squadra» ha sempre detto. Il suo approccio è stato drastico: eliminare il virus e non limitarsi a contenerlo. I risultati sono stati strabilianti: la Nuova Zelanda ha avuto 1.883 infetti e 25 morti su una popolazione di 5 milioni. E oggi si è tornati alla vita di sempre anche se i confini sono ancora chiusi e la crisi economica incalza anche a causa della drastica flessione del turismo.

I lunghi capelli scuri, il sorriso rassicurante, Ardern è anche un’icona femminista. Nel 2017 è diventata la seconda prima ministra al mondo, dopo la pakistana Benazir Bhutto nel 1990, ad aver avuto una figlia durante il suo mandato. Difficile dimenticare la sua partecipazione all’Assemblea generale dell’Onu nel settembre 2018 con la neonata e il compagno Clarke Gayford. Niente fuori dall’ordinario, secondo lei. «Non voglio apparire come una superdonna perché non dovremmo aspettarci questo dalle donne. Se riesco a conciliare tutto lo devo a un partner che può dedicarsi a tempo pieno a Neve Te Aroha».

In un mondo dominato da figure maschili esuberanti, conservatrici e anche sessiste, da Bolsonaro a Trump, la premier neozelandese è diventata il simbolo di una politica non urlata, rispettosa degli altri e sicuramente aperta alle differenze. Come ha dimostrato dopo gli attacchi di Christchurch, nel marzo 2019, quando si rifiutò di nominare anche solo una volta l’attentatore per non concedergli notorietà, ma abbracciò uno a uno i parenti delle 51 vittime mostrando un’empatia cui non siamo abituati. Il Paese si unì nel lutto e lei riuscì a far passare una legge per vietare la vendita di armi d’assalto. Si potrebbe dire che, in un mondo costruito tutto al maschile, Ardern ha avuto il pregio non solo di governare bene ma di portare una visione femminile, mettendoci tutta se stessa.

E dire che nel 2017 era semisconosciuta quando portò al successo elettorale i laburisti, solo sette settimane dopo aver assunto la leadership di un partito considerato in difficoltà. Allora formò un governo di minoranza con i Verdi e un piccolo partito populista; oggi, dall’alto dei 64 seggi conquistati dai laburisti in Parlamento su un totale di 120, potrebbe decidere di non allearsi con nessuno. Ma non è questa la vera sfida. La premier ora dovrà affrontare la piaga della povertà infantile che affligge un minore su otto, soprattutto nella comunità maori, e far uscire il Paese dalla crisi economica in cui è piombato. La rivoluzione ferma ma gentile è solo all’inizio.


Corriere della Sera, 18 ottobre 2020)

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