28 Settembre 2021
Il Fatto Quotidiano

Vanessa Nakate, l’attivista ugandese che chiede “giustizia climatica per tutti”

di Giorgia Colucci


Dagli scioperi iniziali con i fratelli per le strade dell’Uganda, a Rise Up, il movimento degli ambientalisti africani. Per Vanessa Nakate la lotta al cambiamento climatico è una questione razziale. Dopo l’esclusione da una foto – durante il World Economic Forum di Davos – è diventata anche la voce dell’attivismo del Sud del mondo che chiede di essere ascoltato


«Siamo responsabili solo del 3% delle emissioni globali di CO2, ma ne subiamo molto di più le conseguenze». Per Vanessa Nakate – l’attivista ventiquattrenne che ha commosso i partecipanti alla Youth for Climate di Milano – la lotta al cambiamento climatico è sempre stata una questione razziale. L’Africa orientale, dove si trova l’Uganda – in cui la giovane è nata e vive – lo scorso gennaio ha sofferto una delle peggiori invasioni di locuste del deserto degli ultimi 25 anni. Una delle crisi più visibili di un continente vulnerabile, in cui nel corso del 2021 circa 300mila persone sono già state colpite da inondazioni e frane, perdendo in molti casi le proprie abitazioni e coltivazioni. Emergenze che si aggiungono alla siccità cronica di alcune zone e ai cicloni che colpiscono gli Stati meridionali. Così insieme agli altri ambientalisti del Sud del mondo la giovane ha deciso di parlare. «Non si può avere giustizia climatica senza giustizia razziale. Non è giustizia se non include tutti», è uno dei suoi slogan più famosi.

Figlia di un politico di Kampala, la capitale dell’Uganda, Vanessa Nakate racconta di essere sempre stata incoraggiata a raggiungere un “futuro luminoso”. Ha scoperto l’ambientalismo e i Fridays For Future nel 2019, dopo la laura in economia alla Makerere University e ha deciso di seguire il modello di Greta Thunberg per fare pressioni sulle istituzioni e gli scienziati del suo Paese. All’inizio, nonostante volesse agire da sola, aveva però paura di scendere nelle strade della sua città. Quindi, una domenica si è fatta accompagnare da fratelli e sorelle minori, Clare, Joan, Paul e Trevor: i cinque hanno agitato, davanti ai passanti, cartelli che recitavano «La natura è vita», «Climate Strike Now» e «Quando pianti un albero, pianti una foresta» per tutta la mattina. «Avevo la sensazione di aver sprecato così tanto tempo, mentre le persone stavano soffrendo – ha raccontato l’attivista ad alcuni giornali ugandesi, poi riportati dal New York Times – In quel momento ho deciso di aggiungere la mia voce al movimento per il clima». Diverse settimane dopo, anche se i suoi fidi compagni dovevano andare a scuola, ha continuato da sola.

Da allora, ha partecipato a quasi sessanta proteste di Fridays for Future e ha fondato Youth for Future Africa – un movimento per accrescere la consapevolezza dei giovani africani sulla crisi climatica – che in seguito si è trasformato nel movimento Rise Up. Ha organizzato anche una campagna per la riforestazione del Congo e scioperi con gli studenti, appendendo fuori dagli uffici governativi striscioni con la scritta «Mi state prendendo in giro?». Tra le sue battaglie quella contro l’inquinamento atmosferico a Kampala, l’innalzamento delle acque nel Lago Vittoria e i finanziamenti alle compagnie petrolifere del carbone. Le sue storie e quelle degli attivisti che combattono insieme a lei, in vari luoghi del pianeta, sono raccolte sul profilo Instagram One Million Activist Stories. «È importante ascoltare gli attivisti del Sud del mondo perché rappresentano comunità diverse» ha spiegato.

Nel giro di un anno il suo lavoro ha riscosso le attenzioni di tutto il mondo e a dicembre 2019 è stata una delle poche giovani invitate ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite in Spagna. La sua lotta però non è stata sempre facile, e – nonostante le criticità politiche – non solo in Africa. A gennaio 2020 ha rappresentato i movimenti ambientalisti al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, insieme ad altre cinque attiviste – tra cui Greta Thunberg – tutte bianche e occidentali. Quando l’Associated Press ha pubblicato la foto delle giovani all’evento, Vanessa è stata tagliata fuori. «Non avete cancellato solo una foto. Avete cancellato un continente» ha commentato in un video di dieci minuti su Twitter, in cui denunciava l’esclusione delle voci nere e delle comunità più vulnerabili dal dibattito globale sul clima. Sui social è arrivato immediatamente il sostegno da migliaia di utenti provenienti da tutto il mondo. L’agenzia di stampa si è scusata in pubblico e in privato: l’intento – hanno dichiarato – era solo quello di fare un primo piano di Greta. E ha anche promesso di fare di più per sensibilizzare i suoi giornalisti sul tema del razzismo climatico, tema del quale la vicenda è stata in qualche modo emblematica. «Nonostante questo incidente sia stato così doloroso, ha cambiato la storia per diversi attivisti nel Sud del mondo – ha riconosciuto Vanessa in seguito – Penso che ciò che mi ha davvero aiutato a diventare quello che sono oggi sia il fatto che ho parlato e che le persone hanno risposto con il supporto».

Ora Vanessa si definisce “una combattente per le persone e il pianeta” ed è diventata il simbolo di tutti i suoi compagni che non hanno visibilità mediatica e che spesso subiscono in maniera sproporzionata le conseguenze della loro lotta: come i 227 attivisti che – secondo un rapporto del 12 settembre dall’ong Global witness – sono stati assassinati per le loro mobilitazioni durante il 2020 in Africa, Asia e America Latina. Il suo libro, A Bigger Picture: My Fight to Bring a New African Voice to the Climate Crisis sarà pubblicato a novembre. L’esplosione della pandemia e la chiusura dei confini dell’Uganda negli ultimi due anni l’hanno costretta a ripiegare su dimostrazioni online e sui social, dove ha più di 333 mila follower. «La crisi climatica non è stata messa in quarantena». I suoi sforzi stanno però avendo anche effetti concreti: il progetto Green Schools sta installando pannelli solari e stufe eco-compatibili nelle scuole di tutto il suo Paese. «Gli studenti sono i leader di domani – ha dichiarato più volte – Sono gli attivisti di domani. Sono gli scienziati di domani. Devono sapere che possono svolgere un ruolo nella protezione del nostro ambiente». La sua speranza più grande è che le questioni ambientali, sociali e di razza si intreccino sempre di più, confluendo in un grande movimento globale: «Tutto quello che voglio vedere è un popolo felice e un pianeta felice».

Il 27 settembre, aprendo la Youth4Climate che precede la PreCop 26, ha portato la voce di un continente in sofferenza – «In Madagascar si muore di fame, paesi come l’Uganda, la Nigeria, l’Algeria stanno soffrendo sempre di più tra caldo e siccità. Ma non è solo l’Africa. Pensiamo ai Caraibi, a chi lascia le isole per scappare, alle persone del Bangladesh» – ma che vuole e deve agire in maniera mirata. «Servono finanziamenti, non prestiti, ma sussidi a fondo perduto. Perché è facile costruire strade e aprire viadotti, ma i nostri leader non riescono a riconoscere che perdite e danni della crisi climatiche sono già qui (e sono molto più importanti)», ha affermato. «L’azione non si può scegliere, abbiamo bisogno di affrontarla e non in conferenze vuote, dove si sventola solo il denaro». I disastri ambientali di questi anni causeranno tantissime migrazioni climatiche ed estinzioni di specie animali e vegetali e a quel punto – si chiede Nakate – «Chi pagherà?».


(Ilfattoquotidiano.it, 28 settembre 2021)

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