7 Novembre 2015

Dico la mia sul Sinodo della famiglia

di Luisa Muraro

Leggendo la Relazione finale del Sinodo (L’Osservatore Romano 26-27 ott. 2015) mi sono chiesta: come incide su questo testo la composizione solo maschile dell’autorità religiosa che l’ha prodotto? Intendo: come e quanto conta nel testo prodotto, ma anche: come e quanto conta nella sua ricezione?

Vorrei evitare risposte sommarie e dire piuttosto quello che risulta dal mio punto di vista.

Da molto tempo trovo difficile accettare un’autorità solo maschile che non intende rompere con questo esclusivismo e non riesce neanche a introdurre delle correzioni significative. Purtroppo, com’è stato già sottolineato, non si è cercato di farlo neanche in occasione di questo sinodo che aveva un tema, la famiglia, del quale non si può sensatamente parlare senza la competenza e l’autorità delle donne.

Che ci sia autorità, secondo me, è bene, e all’autorità religiosa riconosco l’indipendenza simbolica dai mezzi del potere, sia pure intaccata da compromessi e complicità. Hannah Arendt porta la Chiesa cattolica come un esempio di esercizio dell’autorità che non si confonde con quello del potere.

Ma c’è qualcosa che non va. Il sacerdozio negato alle donne? Sì e no. Non principalmente, secondo me, non quanto il permanere di una casta religiosa, per giunta solo maschile, che inevitabilmente produce un vero e proprio potere religioso.

Ma, bisogna chiedersi, come possa, in concreto, modificarsi una grande tradizione che è il prodotto di secoli di storia in cui ha prevalso, in bene e in male, una visione centrata sull’uomo di sesso maschile. La cosa sembra chiedere tempi così lunghi da non poter impedire le derive sempre più visibili di una civiltà morta, quella patriarcale.

La risposta non è aumentare la presenza di donne in certe cariche e posti, perché non é, e non deve diventare, una questione di quote di potere. È questione di dar vita a quell’autorità che gli uomini, esclusa la madre, non sentono nelle donne e che queste, troppo spesso, esitano ad assumere.

Leggendo la Relazione, ho visto qualcosa che potrebbe essere un inizio promettente di cambiamento.

Arrivata alla Conclusione, il suo linguaggio si modifica. Dice: “Nel corso di quest’Assembea, noi Padri sinodali, riuniti intorno a Papa Francesco, abbiamo sperimentato la tenerezza e la preghiera di tutta la Chiesa” e così via. E termina con la richiesta fatta al papa di dire la sua (detto in maniera meno sbrigativa, s’intende).

Risaltano due punti.

Quello più evidente è la preoccupazione dei partecipanti di mostrarsi uniti. Hanno discusso, sono emersi contrasti su singoli punti e su scelte di fondo, ma la divisione non è definitiva, non ci sarà uno scisma (si spera).

In quest’occasione, come in tante altre, salta agli occhi una costatazione e cioè che gli uomini tendono a fare Uno. Questa tendenza, sappiamo, li ha portati a fare e dire cose discutibili, come una forma di sovranità statale troppo assoluta, che ostacola le relazioni internazionali. Oppure, fino a un recente passato, una patria potestà dispotica sulle donne e sui giovani della famiglia.

La storia è costellata di esempi di questa potente inclinazione simbolica maschile. Che, per se stessa, quando trova i suoi giusti limiti, non sarebbe deleteria, anzi, per esempio aiuta a vincere l’odio di parte.

Oltre a questa capacità, il Sinodo ha mostrato un altro aspetto della differenza maschile, minore ma in sé positivo: agli uomini piace stare tra loro senza donne. Perché no, se non fanno torto ad altri?

Anche a me e a tante altre piace stare tra noi senza uomini di mezzo.

Con la differenza che noi, per poterlo fare liberamente, abbiamo combattuto. Bisognava farlo: uscire dall’isolamento domestico, coltivare alleanze e amicizie con altre donne, era e ed è necessario per uscire dalla subordinazione al maschile. Abbiamo combattuto con mezzi già a disposizione, ma anche e soprattutto con invenzioni originali. Fra queste c’è il linguaggio del partire da sé in relazione con altre per significare un’esperienza originale femminile che non era dicibile con i criteri del vero/falso a disposizione.

Torno al linguaggio della Conclusione. Il secondo punto, meno appariscente ma più nuovo e importante, è proprio il partire da sé. Nella Conclusione, infatti, compare un “noi” prima assente dal testo. Il “noi” si usa molto nel linguaggio ecclesiastico, ma ha un significato convenzionale. Questo invece è un vero “noi”, riguarda quegli uomini lì in quel contesto e comunica il loro sollievo di trovarsi d’accordo nel riconoscere il primato del vescovo di Roma, dopo giorni di un difficile confronto e alla fine di un testo tutt’altro che unitario. E lo esprime con un linguaggio affettuoso.

Questo affiorare della soggettività in un testo istituzionale, lo attribuisco all’esempio e all’insegnamento di papa Francesco. E porta con sé la promessa di una presa di coscienza maschile.

Se io, d’altra parte, ho potuto captarlo, questo lo devo a una scoperta fatta dal movimento delle donne e approfondita con il pensiero della differenza sessuale, scoperta che mi ha orientata in filosofia.

Attingere al vero e dirlo, era nel programma della filosofia di una volta; quella di oggi lo considera, non senza motivo, presuntuoso o insensato.

Dall’esperienza femminista io ho imparato a uscire da quest’alternativa. Si può affinare l’ascolto e udire, talvolta, la voce della verità, e riconoscerla. La rispondenza delle parole al contesto e al vissuto non le rende per questo prive di valore veritativo, anzi. La verità soggettiva è più vera di quella oggettiva, perché viene dall’intimo, che è il suo luogo sorgivo, generata da esseri umani in rapporto sensibile con l’universo. E parla nel qui e ora di una situazione qualsiasi riuscendo a farsi udire nel frastuono di questo mondo.

 

(www.libreriadelledonne.it 7/11/2015)

 

 

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