di Alberto Leiss
Hillary Clinton, che a quanto pare si è detta femminista in extremis, è stata battuta dal maschilista confesso Donald Trump.
La candidata democratica ha preso più voti del suo avversario, ma resta il fatto che le battutacce sessiste del magnate (e le tante denunce di molestie) non hanno frenato il suo consenso.
Si apre un’epoca ostile all’autodeterminazione e alle libertà femminili?
Se ne è discusso alla Libreria delle donne di Milano, una delle sedi storiche del femminismo italiano, e la risposta di Lia Cigarini è andata in controtendenza. Certo Hillary – prima donna a correre per il vertice dell’Impero – ha perso, ma negli ultimi anni la presenza e l’azione femminile nel mondo hanno conosciuto un boom senza pari.
Grandi e grandissime città come Parigi, Barcellona, Madrid, Tokyo, Stoccolma, Roma, Torino, etc. amministrate da donne, paesi come Germania e Regno Unito governati da donne, così come la Federal Reserve e il Fondo monetario, e persino in Italia il «secondo sesso» primeggia nella sanità, nella giustizia, nella scuola, le più rilevanti attività per il bene pubblico.
Questo scenario per Cigarini parla della libertà femminile e apre l’occasione soprattutto per una «risignificazione» della differenza, una cosa che «non si compie in se stessa», è un divenire della coscienza e della relazione con altre, altri e il mondo.
Ma le donne consapevoli di questo si sentono forse già appagate? Non provano più l’ «inquietudine» che le spinga a «coinvolgere altre e altri»? Ora che la parola femminismo ritorna con un senso di attualità?
Una seconda relazione di Giordana Masotto ha aperto qualche interrogativo: siamo veramente libere rispetto all’individualismo che va per la maggiore? E la qualità delle nostre vite non sta peggiorando, a partire dai luoghi di lavoro? Quanto al termine femminismo, quante volte risulta disinvolto, improprio?
Mentre Luisa Muraro ha avvertito: non separiamo libertà e differenza, la formula che le unisce è «il senso libero della differenza sessuale».
La discussione ha seguito più o meno queste tracce.
Bene che in città governi una donna, ma se il suo comportamento mi crea disagio, perché non sembra differente da quello dei maschi che l’hanno preceduta?
Giusto, ma questo contesto più femminilizzato «riapre un campo di battaglia».
Condivido, però le donne che emergono oggi sono più figlie della differenza o delle politiche della parità che le omologano? E come possiamo competere, senza omologarci, nei luoghi del potere?
Di fronte alla energia «rivoluzionaria» e «barbarica» del popolo che sostiene Trump va fatta crescere la forza «rivoluzionaria» del nostro essere radicali…
L’impressione, comunque, non è stata quella di un’assemblea priva di stimolanti «inquietudini» politiche.
E noi maschi? Eravamo pochi e silenti. Degli uomini si è detto che hanno un desiderio «impietrito», che certo reagiscono in malo modo (vedi Trump) all’ascesa femminile, e che però qualcuno comincia a interrogarsi (citati interventi recenti di Mauro Magatti e Luigi Spagnol).
In questi mesi – aggiungo io – organizzando con altri gli incontri in tante città di Primadellaviolenza, ho incontrato uomini – a centinaia – il cui desiderio non è «impietrito», e che cercano un cambiamento di sé e del mondo non nel segno della revanche maschilista, ma di segno opposto.
Sono sempre più convinto del fatto che senza aprire un lavoro e uno scambio comune su che cos’è politica non si andrà avanti, né per la libertà, né per la differenza, che riguardano ognuno e ognuna.
Le resistenze, però, da «amboisessi» – così si chiamavano certe antiche società operaie – non mancano.
(il manifesto, 15 novembre 2016)