di Silvia Acierno
“J’aurais voulu ne pas avoir de corps”
(SdB, intervista con F. Jeanson)
Simone de Beauvoir sentì parlare di Elsa da Moravia a Capri negli anni ’50. Lui la lodò. Beauvoir voleva incontrarla, ma Moravia rimase evasivo. Fece una boutade, dicendo che Elsa frequentava solo omosessuali. L’incontro tra le due scrittrici avvenne alcuni anni dopo. Non saltarono scintille come temeva Moravia. A quell’incontro Elsa allude in una lettera a Beauvoir del 1963. Quell’incontro era stato per lei un «grand événement» (L’Herne Beauvoir, Parigi, 2012). Eppure nella stessa lettera si indovina una distanza tra le due scrittrici. Elsa dice di attraversare un periodo difficile. Di Beauvoir ammira invece «le naturel» con cui si relazionava agli altri e al mondo. Elsa nell’oscurità. Beauvoir nella luce.
La complessità della posizione della donna nell’opera di Elsa Morante va oltre il discorso femminista moderno inaugurato da de Beauvoir, anticipando il dibattito femminista postmoderno e i suoi temi. Nei suoi romanzi Elsa non sceglie come eroina la donna emancipata, quella donna che lei stessa fu molto presto. Il nodo della questione femminile lo vede nella donna debole, imprigionata tra l’affermazione e la negazione della maternità, in questo corpo di donna che lei stessa portava dentro, che lei stessa era. Reliquia chiara e allo stesso tempo oscura che sua madre le aveva consegnato. Corpo che genera e che non può generare, corpo che si apre e si chiude, corpo unico e multiplo nelle sue cicatrici e nelle sue sensazioni. Corpo fuori del quale sempre ci proiettiamo e in cui sempre ritorniamo.
Una parte del discorso femminista postmoderno esplora l’identità femminile, cosa vuol dire essere donna. Se, come aveva intuito Simone de Beauvoir, la donna è un artefatto culturale, allora cosa c’è sotto questa maschera?
Julia Kristeva scrive che per ritrovare questa identità bisogna tornare ad un epoca anteriore a qualsiasi dicotomia. Bisogna ritornare al corpo della madre. Luce Irigaray invece crede nella molteplicità del sesso femminile. Con Hélène Cixous, questa libídine eterogenea diventa «cosmica» e la molteplicità delle zone erogene si deforma in una «erogenità dell’eterogeneo», un incosciente comune dal quale sorgono forme, suoni, desideri e bellezza. Wittig vede nei corpi degli artefatti politici modellati con violenza attraverso il linguaggio. Solo con il recupero di un linguaggio universale e originario la donna potrà esistere come soggetto.
Cos’è allora la donna? Una costruzione dell’uomo? Un sesso che non esiste? L’unico sesso che esiste? Oppure una categoria da distruggere?
Judith Butler spinge questo discorso ancora oltre. La donna è un prodotto della cultura eterosessuale che in un circolo vizioso genera identità fittizie nel momento stesso in cui le proibisce. Non esisterebbe un momento anteriore (anteriore alla Legge del Padre). Tutto si svolge all’interno di questo circolo. Qualsiasi strategia di emancipazione sarebbe solo una concretizzazione ulteriore della legge del Padre. Dietro non c’è niente.
L’affanno postmoderno di stravolgere tutto ha il merito di vedere nei generi solo delle nozioni artificiali e aperte. Però in qualche modo, al di là della critica di qualsiasi ontologia e metafisica, la teoria postfemminista sembra a volte persa nei meandri di una ricerca di cui nega l’esistenza, nascosta in un discorso troppo complesso e alla lunga sterile. Che fare allora? Come costruire questa differenza?
Azzerare tutto, come vorrebbe Nancy Huston, tornare al punto di partenza e riconoscere che siamo diversi. Che lo siamo prima ancora che la cultura ci faccia diversi.
Oppure tornare indietro, al ventre materno, a un linguaggio arcaico, poetico, recuperando la jouissance per sempre perduta. Cixous ci esorta: scrivi, scrivi! Scrivere in un linguaggio che si scioglie in mille lingue, capace di uscire dagli schemi della psicoanalisi, di “volare”, di “entrare” in me, in te, nell’altro che è in me, nell’altro che è in te, senza fine. O ancora chiudersi in una strategia di trasgressione, di disintegrazione.
Resta la dispersione della rinuncia a qualsiasi utopia di una preistoria dove si nasconderebbe il nostro essere autentico e al sogno di un nuovo ordine futuro: la reificazione della maternità o qualsiasi altra strategia finirebbero solo per sostituire alla Legge del Padre un altro principio univoco e chiuso. E allora? Possiamo solo essere sublimazione o psicosi?
L’opera di Elsa si nutre di queste domande. Nei suoi romanzi l’esaltazione della maternità si accompagna a una denuncia profonda dei meccanismi attraverso i quali la cultura dominante modella il desiderio di maternità. La madre è una figura ambigua che ama e castra. La maternità permette alla donna di avvicinarsi ad una memoria istintiva (le donne del ghetto nella Storia), la espone ad una specie di rivelazione (Ida si reca nel ghetto in uno stato di trance), e la rende molto più critica dell’Ordine Simbolico. Ma in questa implacabile genealogia femminile in cui la figlia si confonde con la madre, con la madre di sua madre, con le donne della sua famiglia, con la stirpe intera, che rinasce nel suo corpo e di cui condivide il destino, l’identità femminile si perde in un “processo incerto”.
Nel romanzo Aracoeli, Elsa esplora la possibilità del viaggio verso un passato di jouissance attraverso la narrazione e si interroga sulla “realtà” di questo passato che solo riesce ad entrare nella narrazione di Manuele come una specie di fêlure. Ma, forse, la terra arida di El Almendral vuole comunicare l’impossibilità di ritrovare questo “punto di partenza”. E il gioco continuo tra memoria, ricordi apocrifi e narrazione, che caratterizza tutta l’opera della scrittrice, pure si muove tra la possibilità e l’impossibilità (linguistica) di recuperare questo mondo che precede ogni separazione.
Nelle intenzioni di Elsa, Aracoeli, senza saperlo, attraverso la propria degradazione, doveva ribellarsi ai crimini collettivi. Eppure nelle pagine del romanzo si sente anche una certa ambivalenza rispetto a questa Rivolta. Manuele non sa bene cosa voglia Aracoeli, la ama e la maledice. Assieme a Manuele anche Elsa sembra interrogarsi sulla possibilità di questa ribellione. Secondo Judith Butler, lo scenario della ribellione non potrebbe mai collocarsi “fuori”. Si trova sempre dentro, costruito per poi essere emarginato ed escluso dalla cultura dominante per i propri fini e la propria economia.
Nell’opera di Elsa c’è anche una riflessione sul corpo (non solo femminile) e sulle dinamiche tra il corpo come simbolo culturale (corpo che limita e che reprime) e il corpo fatto di desideri, immaginazione e piaceri che l’altro copro distribuisce, legittima e censura. È il corpo omosessuale e “disorientato” di Manuele, narratore di Aracoeli con cui Elsa si identifica, corpo che si confonde incestuosamente con il corpo di sua madre Aracoeli, corpo che è fatto anche di “altri organi” nascosti e “senza limiti” che gli permettono di ascoltare la voce della madre e sentire il suo alito.
Ma è anche il corpo di Aracoeli, luogo di amore, oppressione e contestazione. Corpo che subisce una tragica metamorfosi. È il corpo di Arturo (protagonista del secondo romanzo), attraverso il quale Morante cerca di recuperare un’infanzia mitica, il limbo dopo il quale non c’è paradiso e che anticipa l’infanzia di Useppe de La storia.
Ed è anche il corpo di Ida, la madre di Useppe, corpo di vedova violato da un giovane soldato tedesco che potrebbe essere suo figlio, corpo che nasconde la propria maternità e la propria femminilità, corpo giovane ma già vecchio e deforme. E nel corpo di Ida, maestra ebrea, si cela il corpo di un’altra maestra ebrea, la madre di Elsa che, scoperta l’impotenza di suo marito non volle rinunciare al sogno della maternità e scelse l’adulterio per poter avere i suoi figli. Però allo stesso tempo corpo vergine la cui sessualità Elsa negò sempre dichiarando che sua madre fu la più “casta” di tutte le donne. E in questo caleidoscopio di corpi, finalmente c’è anche il corpo della scrittrice su cui la storia della madre si è impressa come un messaggio cifrato, nel quale Elsa cerca di trovare la sua identità.
(www.libreriadelledonne.it, 20 marzo 2015)