24 Maggio 2016
Avvenire

Eremite, storie di donne nel deserto

di Lorenzo Fazzini

Si chiamavano Macrina, Paola, Sabiniana, Teodora, Olimpia, Eugenia, Marcella, Vitalina, e molte altre ancora. Il loro numero era cospicuo: la testimonianza di Palladio, autore del IV secolo della Storia Nausicaa, indica in addirittura 3000 il loro numero. Solo nel monastero egiziano di Tabennisi se ne contavano ben 400 coabitanti insieme. Sono le madri del deserto. La versione ‘rosa’ del più celebre e famoso movimento monastico iniziato da Antonio (250-356), egiziano, che si stabilì non lontano dal Sinai.

Un fenomeno poco conosciuto quello delle donne che lasciarono tutto per cercare Dio nella solitudine di un deserto. Un’esperienza che, purtroppo, nel corso degli anni venne messa tra parentesi anche nel mondo cristiano, come avvenne per altre esperienze religiose femminili. E che invece possiede una sua peculiarità feconda anche per l’oggi, come testimonia Gabriele Ziegler nel suo recente testo Madri del deserto. Eremite del primo Cristianesimo (Libreria editrice vaticana, pagine 160, euro 12,00).

Sono molte le notizie che Ziegler mette in evidenza nella sua ricerca. Anzitutto rintraccia gli elementi caratteristici e plausibilmente unitari di queste donne emerite: tra queste la capacità, pur vivendo un’esperienza di isolamento, di essere solidali nella loro ricerca ascetica di Dio: «Le madri del deserto non erano combattenti solitarie, al contrario erano in rapporto con le sorelle e si consigliavano con loro». Schiettezza e perspicacia nei rapporti con i pari di sesso maschile caratterizzavano queste figure femminili, che potremmo definire virili se non fosse che tale termine le incapsulerebbe ancora in cliché tipici di una visione maschile. Ne è comunque un esempio questo passo tratto dalle testimonianze su Sarrha, donna che, si legge nella raccolta di vite femminili Meterikon, «visse nella lussuria per 15 anni», in seguito eremita sul Nilo per 60 anni: «Secondo natura sono donna, ma non lo sono nei pensieri», disse in un confronto con due uomini. Un modo, questo, per affermare la parità di valore intellettuale rispetto ai padri.

Il noto monaco e scrittore Anselm Grün segnala nella sua prefazione come l’esperienza delle eremite abbia costituito una rottura (in meglio) nel mondo antico in tema di parità di genere: «Rispetto ai filosofi greci, che disconoscevano alle donne la capacità di filosofare, i padri della Chiesa e i primi monaci riconoscono nelle donne la stessa energia necessaria per l’ascesi».

Altro elemento unificante di tale esperienza e- ra la qualifica che veniva assegnata a queste donne: chi sceglieva l’eremitaggio veniva chiamata ‘amma’, ovvero «una donna saggia che possa accompagnare le altre nel percorso di vita. Le madri del deserto divennero qualcosa come levatrici spirituali che aiutarono altre a maturare nell’anima e a fare il loro cammino di vita», scrive Ziegler. Un esempio di tale statura umana e spirituale la troviamo in Olimpia: da giovane fidanzata con Nebridius, tesoriere dell’imperatore Teodosio, venne ordinata diaconessa a nemmeno 40 anni. Fu discepola di Giovanni Crisostomo e mantenne con lui numerosi scambi epistolari.

Si diceva prima di alcuni tratti di queste donne intrisi di modernità. Tra questi spicca l’elemento di una sessualità riconciliata. Lo testimonia ad esempio la vicenda di Paolo, il primissimo eremita, impiantatosi sul monte Gherit vicino al Mar Rosso, vissuto tra il 228 e il 341: quando rimase paralizzato, venne curato e assistito solo da donne. «In questo modo – scrive Ziegler – chiarisce che la piena castità non comporta il tentativo di isolarsi da ogni tipo di sessualità». L’autrice annota come «le madri del deserto non ammisero che una donna fosse ritenuta a priori una tentatrice, come Eva. Sostenute dalla loro esperienza e dal confronto con donne provate dal deserto, esse dimostrarono che quella funesta identificazione non è vera». E anche l’astinenza sessuale non era considerata un assoluto imprescindibile, «qualsiasi forma di ascesi non ha valore in sé: il parametro per una vita che sia sostenibile e che ci renda sopportabili per gli altri è quello dell’amore». (…)

 

(Avvenire, 24 maggio 2016)

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