29 Novembre 2013
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Esperienze di desiderio

di Alessandra Pigliaru

La solidarietà appartiene all’orizzonte molto scivoloso della bontà. Ecco perché l’idea della solidarietà non piace a tutti, proprio perché quel che vi si annida è il doppio volto di una bontà che spesso non ha niente di autentico bensì di funzionale ad altri e ben più prosaici scopi. Eppure la benevolenza, letteralmente volere il bene (proprio e altrui), non segnala solo la retorica dei buoni sentimenti dove ci vogliamo tutti e tutte un gran bene e desideriamo esclusivamente il meglio per il nostro prossimo (tutto d’un fiato così, senza virgole). Nella benevolenza che si nasconde dietro la solidarietà c’è solidus, l’intero che, espunto dal suo significato giurisprudenziale di obbligo, oggi – in questi giorni – si declina nella forza. Dunque non nella solidità di una compagine che non viene scalfita da niente ma nella forza – che dice un movimento del corpo e un tragitto simbolico fondamentale. Questo perché la solidarietà di questi giorni in Sardegna sta prendendo corpo, nel vero senso del termine. Anzi, lo ha già preso quel corpo, per mano, negli occhi e nelle intenzioni piene, di donne e uomini che hanno saputo dire un grande sì. È un sì che non riguarda le gerarchie, i ruoli e le parate da convenevoli istituzionali. È un sì che fa arretrare l’asfissia dell’oppressione, tentando di attraversare la distanza e la separazione dagli altri corpi che non ce l’hanno fatta e che si sono perduti in questi giorni dolorosi. Nell’acqua, nel fango e nell’incuria di politiche scellerate. È un sì che non ama le ribalte, ha una storia antica e non c’entra niente con l’orgoglio e neppure con gli angeli, lo vorrei sottolineare. Non c’è stato neppure il bisogno di discuterlo quel sì perché appunto è stato intero. E quando le cose sono intere c’è poco da obiettare. L’insieme è accaduto solo dopo, quando quel sì è stato della medesima forza per ciascuna e ciascuno. E forte, non come una popolazione o una cittadinanza ma come quei corpi che, sardi o no, toccano la catastrofe e la risignificano. Come è successo, seppure in condizioni e in proporzioni del tutto diverse, all’Aquila e in tutti quei territori maltrattati da uno sfruttamento ormai senza freni. Del tutto senza freni. Ma questo rilievo della colpa ora mi interessa meno. Mi interessa invece raccontare quello che ho visto, tutti quei sì che mi hanno fatto pensare alla cosiddetta solidarietà che può diventare, a ben guardare, una pratica politica di forza plurale, corpi e desideri insieme. Invece di solidarietà la si può chiamare vicinanza, rende meglio l’idea di quel che è successo. L’esperienza che vi racconto è sicuramente simile a molte altre che in queste ore si stanno sviluppando qui ma siccome è nata a Sassari, città in cui vivo, la posso condividere. Si tratta del desiderio di alcune donne e alcuni uomini, tutt* tra i trenta e i quarant’anni, che attraverso un passaparola hanno stabilito di mettersi a lavorare per sfidare un disastro come quello che si è consumato lunedì in diverse zone dell’isola. E hanno trovato un luogo che accogliesse ciò che poteva occorrere a chi ha perso tutto, o quasi. Certo che c’è una ferita grande e incolmabile che segna una linea definitiva nella perdita: chi è scomparso nessuno potrà restituirlo. Nell’esperienza che vorrei condividere, non c’è neppure chi pretende di gestire una circostanza tremenda come questa per lavarsi la coscienza. Nessuna organizzazione prestabilita, nessun partito. Tante delle cose lette in questi giorni mi hanno fatto arrivare alla conclusione che forse le situazioni-limite consentono almeno di capire chi fa sul serio e chi fa finta. Non c’è tempo per le mediazioni, emerge tutto – anche qui – per intero. E certo, è paradossale che avvenga in un momento in cui si contano i resti. All’ex questura di Sassari, oggi denominata exQ da quando qualche anno fa è stata occupata ed è diventata centro di scambio sociale e di arte, si sono così ritrovate e ritrovati i ragazzi e le ragazze di cui vi raccontavo prima. Fanno parte di un’età di difficile sistemazione. C’è chi la chiamerebbe giovane generazione eppure non sono più così tanto giovani. Pensiamoci. Comunque, Elisa, Marco, Maria Vittoria, Eleonora, Antonella, Peppe, Silvia hanno saputo creare una rete incredibile. Anzi, del tutto credibile giacché sono state centinaia gli uomini e le donne arrivate all’exQ, che gentilmente ha fornito gli spazi, per aiutare a smistare gli enormi carichi che via via arrivavano e arrivano. Dagli abiti ai passeggini, giochi per la prima infanzia, materassi, prodotti per l’igiene ma anche tute da lavoro e coperte, piumoni, stivali di gomma, pale, secchi, medicinali da banco, cibo per animali; tutto ciò insieme alle tante altre cose che nello specifico si decidono in base alle esigenze comunicate dai vari paesi colpiti dall’alluvione. Si sono spartiti i compiti, chi monitorava il magazzino, chi piegava e selezionava con cura ciò che andava riposto nelle scatole, chi teneva i contatti per i vari carichi e scarichi, chi dava il via per le catene di gente che dall’ingresso ai piani restava lì anche per ore a passare pacchi, buste e casse d’acqua, chi gestiva poi la pagina facebook creata per coordinarsi con quelli che da fuori leggevano e rispondevano. Aggiornata ogni mezz’ora quella pagina ha avuto presto migliaia di contatti. Segnano le esigenze che si fanno sempre più specifiche cercando di capire come fare, dove andare e soprattutto quando muoversi. Ogni sera riunione e report per dare dettagli a chi ha fornito e fornisce la propria collaborazione. Molti furgoni si sono mossi da Sassari verso le zone colpite dall’alluvione, aziende e privati hanno messo a disposizione i propri mezzi e il proprio tempo. E molte, davvero molte persone si susseguono anche in queste ore per aiutare nello smistamento ma anche nei rapporti con i vari centri (in tal senso penso al lavoro di Marilina, per esempio). L’emergenza, mi dico, c’entra relativamente. Unioni significative e confronti critici come quelli che si sono creati in questi giorni non lasciano spazio a dubbi: come quando sono stata all’Aquila poco tempo fa e le pratiche delle donne di TerreMutate mi sono arrivate così forti e giuste. Non erano i buoni sentimenti ma quella distanza che si accorcia tra ciò che sono i corpi e quel che è: qualcosa di autentico, veritiero. Mentre pensavo a questo legame, le ragazze e i ragazzi erano sempre lì a chiarirmi una volta per tutte come quel sì tutto intero li stava facendo diventare una piccola comunità desiderante che si stringeva e disegnava nuovi scenari di partecipazione politica. Perché questa è già politica ed è quella che fa sul serio, mi sono detta. Non c’è posto per la finzione né per i giochi del potere. Va ascoltata e tenuta da conto altrettanto seriamente. Il patto che si sceglie di stabilire in queste circostanze non ha un fine utilitaristico, è piuttosto uno scambio di credibilità e desiderio che passa per le parole e per i pensieri. Un patto di fedeltà che ciascuna e ciascuno sa per sé e dunque può riconoscere nell’altro. Molte parole sono state condivise in questi giorni, una di queste l’ha usata Elisa: famiglia. Una famiglia che si sceglie. La seconda parola l’ha usata Eleonora: azione. Scrive che i fatti conquistano più delle parole che facilmente incantano. Vorrei rispondere a Elisa e a Eleonora che ciò che hanno messo in circolo tutte e tutti in questi giorni mi è arrivato come un gesto di grande forza e fierezza. La famiglia che si è potuta scegliere è in fondo l’altro nome di una comunità più grande. Ci si sente responsabili di quella comunità nel momento in cui le si riconoscono i desideri e i corpi che la abitano. E i fatti non conquistano più o meno delle parole. La conquista vera è sapersi in una relazione che tiene salde e saldi, nonostante tutto, e che riconnota la paralisi. Questo lo si è già pensato, dunque messo in parole e in azioni. Parole che raccontano non dell’identità ma della differenza che una comunità che si governa da sé mette in essere. Con tutte le vulnerabilità che il presente ricorda e alle quali si risponde con una vicinanza e una forza che si riconoscono nelle altezze rare di chi fa del proprio desiderio un’impresa di amore. Perché questa, appunto, è una pratica che dall’interezza di sé ti guarda dritta negli occhi. Non c’è un’agenda programmatica, né obblighi o malintesi da rappresentanza, né favori da mantenere. E perciò ha tutta la mia attenzione. Esattamente come mi è stata restituita: intera, forte. E profondamente grata.

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