19 Novembre 2016
NOSTOP Periodico FILT CGIL

Far parlare l’esperienza femminile

di Anna Paola Moretti, ricercatrice

Biografie di donne da ricostruire e interrogare, come nella storia di Leda Antinori.
La memoria è un processo relazionale

Da qualche tempo mi sono ritrovata a scrivere di storia cercando di far parlare l’esperienza femminile da una posizione di ascolto1. Per fare un esempio, voglio parlare di Leda Antinori, su cui ho condotto una ricerca con Maria Grazia Battistoni2, per riportare sulla scena pubblica la vita di una ragazza partigiana di cui nella sua stessa città, Fano, era rimasto noto solo il nome. Il mio desiderio era di avvicinarmi alla sua verità umana, oltre che a quella fattuale. La vita di Leda si è consumata in un breve arco di tempo: dal 17 febbraio 1927 al 3 aprile 1945. Mentre la sua casa diventava un punto di riferimento importante per la Resistenza fanese durante l’occupazione tedesca, lei aderì alla Resistenza rivelando coraggio e determinazione. Non era spinta da alcun bisogno di sottrarsi ai bandi di

arruolamento della repubblica di Salò. Trasportava messaggi, armi, stampa clandestina, lungo la vallata del Metauro fino alla Gola del Furlo; faceva anche parte dei Gruppi di Difesa della donna, che offrivano assistenza ai combattenti ma erano per le donne anche spazio di confronto su questioni relative alla propria condizione femminile e al loro futuro. Fu arrestata il 20 luglio 1944 mentre trasportava armi, come scrisse nel diario che poté appena abbozzare: mentre la mattina io Luciano Ilvio e gli altri portavamo dei fucili e rivoltelle nel nostro comando che si trovava a Fenile, fummo fermati dai tedeschi. I miei compagni sono fuggiti e io per non farli prendere mi son consegnata a loro. Condannata a morte dopo una serie di interrogatori e carcerazioni in varie località, in seguito ad un bombardamento sulle carceri bolognesi riuscì a fuggire e a far ritorno a Fano, attraversando il fronte. Distrutta fisicamente per le violenze subite e le sofferenze durante la fuga randagia per le campagne dell’Emilia Romagna, morì di tubercolosi poco dopo il suo ritorno. Aveva da poco compiuto 18 anni e al suo funerale partecipò una folla commossa. Nella sua città Leda è stata ricordata come

una vittima della barbarie nazifascista. Ricostruendo la sua storia ci siamo accorte che c’era anche altro. Pur molto giovane, Leda era stata capace di scelte determinate che aveva più volte rivendicato: la iniziale disubbidienza civile a un regime che aveva disciplinato le coscienze; il sacrificio per far fuggire i compagni; tacere sotto tortura i loro nomi; il rifiuto di essere liberata per non provocare rappresaglie alla popolazione di Novilara; la richiesta finale fatta alla famiglia di non fare vendette pur conoscendo i suoi delatori. Leda aspirava dunque a un modo di vita sottratto alla violenza che aveva sperimentato, era consapevole che, anche dopo la sua fine, ogni guerra si allunga sul futuro e non finisce mai. Scegliendo di interrompere la catena dei lutti affermava la sua ricerca di libertà, che non era solo quella da un’occupazione straniera e dall’ideologia fascista, ma una libertà femminile intesa come misura per sé: una pratica orientata alla vita, impensata in un contesto dominato dall’uso della forza. Mi sono accostata alla storia di Leda con la modalità di ascolto di sé e delle altre che le donne hanno imparato nel femminismo degli anni Settanta. Mi sono nutrita di quello che altre donne mi hanno offerto in un passaggio di intelligenze femminili tra generazioni: la memoria orale della sorella di Leda, Iva; una ricerca svolta negli anni ’80 da alcune insegnanti fanesi; il lavoro delle storiche che dalla metà anni ’70 hanno iniziato a ricercare le testimonianze delle partigiane; la modalità di incontro con le testimoni della Shoah appresa da Daniela Padoan; le indicazioni sviluppate in lunghi anni di ricerca e pratica di confronto dalla Comunità di ricerca storica fondata da Marirì Martinengo, diventata recentemente “Comunità di storia vivente”; le sollecitazioni derivanti dal lavoro di Anna Bravo sulle storie di sangue risparmiato, a cui abbiamo sottoposto il nostro lavoro. Coniugando rigore di ricerca e rapporto di empatia, dalla tessitura delle fonti orali, bibliografiche e d’archivio, è nata una narrazione diversa e sono emersi tratti originali di signoria femminile.

Se Leda avesse avuto il tempo di scrivere la sua storia, sarebbe riuscita a eludere i modelli narrativi che spesso hanno imbrigliato la narrazione di sé di tante partigiane? Negli anni ’50 della Guerra fredda, la società italiana espresse sospetto e condanna verso le donne che, trasgredendo ai ruoli imposti, avevano partecipato alla Resistenza ed erano state anche deportate nei lager. Il fenomeno non fu solo italiano, ma europeo, testimoniato anche dalle combattenti sovietiche3. In quel clima regressivo e repressivo gran parte delle partigiane adottò un racconto convenzionale che escludeva emozioni e sentimenti e si nascose dietro il riassestamento generale della memoria. Per la difficoltà di far corrispondere vissuto e rappresentazione, per la difficoltà a simbolizzare le proprie azioni, la perdita di memoria avvenne per le donne anche all’interno del ristretto cerchio familiare4. Molte si chiusero nel silenzio. Iniziarono un racconto diverso solo quando furono sollecitate da altre donne5; il femminismo si è posto come spartiacque per la dicibilità dell’esperienza femminile. Finché la Resistenza fu vista come un fatto prevalentemente militare, l’azione delle donne, dispiegata in gran parte senza armi, rimase quasi invisibile per la storiografia. Relegate a fiancheggiatrici di supporto, furono loro tributati ringraziamenti generici e rituali. Il riconoscimento del ruolo strutturale avuto dalle resistenti iniziò negli anni ’90, quando la resistenza civile si affacciò come nuova categoria interpretativa. Oggi, a settant’anni dagli avvenimenti, mancano ancora studi generali sulle donne che hanno fatto la Resistenza e le motivazioni che le avevano spinte ad agire sono ancora troppo spesso ricondotte a categorie inadeguate. Sappiamo bene che alla radice della nostra cultura patriarcale, e delle istituzioni che questa ha sviluppato, c’è la separatezza dell’ambito assegnato alle donne. Quando è accaduta qualche loro imprevista irruzione sulla scena pubblica, le donne sono state incluse senza voce, interpretate, senza lasciar spazio a ciò che esse sapevano e pensavano di sé e del mondo. Per le partigiane si è utilizzata la categoria della emancipazione e a misura del loro coraggio è stata posta la virilità. Letture esterne, che diventano un rimpicciolimento dell’esperienza femminile, in un’ottica di concessione e omologazione maschile. Non a caso, il termine emancipazione non si usa per i maschi, a meno che non si tratti di popoli coloniali. Infatti, l’emancipazione era un istituto del diritto romano, in base al quale il figlio otteneva l’estinzione della possibilità di essere venduto; erano gli schiavi a essere emancipati. L’emancipazione segnala un percorso di accesso ai diritti che non restituisce soggettività, la possibilità a ciascuna/o di dire cosa prova, le proprie motivazioni e inclinazioni, quale libertà cerca, né il valore di chi, donna o uomo, ha capacità cuore intelligenza da spendere nella realizzazione di sé e anche a beneficio della convivenza comune. La forza della soggettività rende vivi e concreti fatti e idee e mantiene la storia legata alla vita. Di fronte a donne che hanno attraversato eventi cruciali, oltre al desiderio di tributare loro giustizia, sorge il bisogno di indagare la loro esperienza per illuminare il nostro presente, così carico di contraddizioni e di sangue. Ma ogni vita femminile, anche “comune” (“vite infinitamente oscure” le aveva chiamate Virginia Woolf), non più relegata nel privato e interpellata, ha in sé la potenzialità di farsi ponte per farci accedere alla comprensione della storia più ampia. Questa modalità di fare storia è stata scelta in molte ricerche condotte da donne, per lo più in ambito non accademico6. Accade spesso, di fronte a protagoniste ormai scomparse, di avere a disposizione solo scarse fonti che parlino di loro. Possiamo però ricreare il contesto in cui vissero perché da quella cornice risaltino le loro tracce e poi attuare consapevolmente un incontro di memoria e storia, in un ascolto partecipato delle voci che si sono espresse; possiamo apprendere dalla nostra memoria e dalla nostra esperienza per porre con responsabilità interrogativi a quelle vite di donne rimaste per lo più nell’oblio e aver cura di quello che alla fine si disegna come loro lascito e ci restituisce la loro passione. Credo anche che abbiamo necessità di far incontrare le storie delle varie donne che ci sono state compagne di viaggio e dare forma a una rete: non solo per far emergere figure dimenticate, ma entrare in contatto noi che facciamo ricerca e confrontarci; una trama di relazioni per tenere insieme storia e politica, affinché ci sia una storia non più mutilata, ma finalmente costruita anche con la presenza dei soggetti femminili e intessuta dei sentimenti che uomini e donne provano.

Anna Paola Moretti – Ricercatrice storica per passione, è stata tra le fondatrici nel 1985 dell’associazione Casa delle donne di Pesaro, dove ha organizzato seminari di storia, linguistica, politica delle donne; collabora dal 2007 con l’Istituto di storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino organizzando incontri e seminari su storia e memoria della deportazione femminile.

NOSTOP Periodico FILT CGIL Nazionale, n. 92 – Novembre 2016

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