4 Agosto 2013
Corriere della Sera

Femen(ismo)

di Gianna Fregonara

A sua insaputa due settimane fa Inna Shevchenko è diventata la Marianna di Francia sui francobolli dell’era Hollande: lei, ventitreenne ucraina e leader delle femministe più arrabbiate e mediatiche del momento, è ritratta al posto di solito riservato ad attrici e star per rappresentare il modello della bellezza francese. La notizia, considerata una gaffe del governo francese, contro il quale peraltro Inna e le ragazze di Femen hanno manifestato in topless, ha fatto il giro del mondo. Proprio come quest’altra notizia di poche settimane prima: tre attiviste di Femen, una tedesca e due francesi, venivano scarcerate a Tunisi dopo 29 giorni in cella per aver protestato sempre in topless per solidarietà con Amina Tyler, la ragazza che ha postato su Facebook la sua foto a seno nudo.

A Kiev una settimana fa sono state arrestate e visibilmente picchiate tre attiviste di Femen: il governo voleva evitare che, con la visita di Putin per celebrare i 1.025 anni di cristianizzazione di Russia, Ucraina e Bielorussia, si ripetesse l’episodio di Amburgo, quando un piccolo flash mob (in topless) ha «disturbato» la visita del presidente russo ad Angela Merkel.

Di loro si parla (non sempre bene) sulla Rete e sui giornali di tutto il mondo. Su Google le ricerche per Femen hanno superato quelle per «femminismo». Ma chi sono queste ribelli (e anche vittime)? Sono la nuova espressione del femminismo del XXI secolo o si tratta di fortunate piazziste di se stesse nella società dell’immagine e di Facebook? Belle, arrabbiatissime e molto giovani. Determinate, fastidiose per i regimi non democratici, ma anche per i politici in genere, e molto, molto mediatiche: protestano usando il seno come arma, si autoproclamano le nuove femministe, ignorano gli altri movimenti. Decine di migliaia di sostenitrici in tutto il mondo, partite dall’Ucraina e approdate prima in Francia (qui è arrivata casualmente una delle loro leader in fuga dal Paese dopo aver segato la croce dedicata alle vittime dello stalinismo, come gesto di solidarietà verso le Pussy Riot condannate a due anni di reclusione a Mosca), in Germania e ora anche nei Paesi arabi. Non senza incomprensioni e problemi.

Alle femministe storiche, e in genere ai commentatori di questi fenomeni, non piacciono. Del resto loro, che arrivano da un Paese dove gli anni Settanta non ci sono stati, del femminismo dicono: «Pensavamo che volesse dire vestirsi male con capigliature strane e odiare gli uomini», ha raccontato a «Die Zeit» Alexandra Shevchenko, una delle tre attiviste picchiate nei giorni scorsi.

«Eppure io una continuità con le battaglie femministe la vedo — spiega Barbara Mapelli, femminista da sempre e in procinto di aprire a Milano la «Casa delle donne» di via Marsala —. È vero che nel loro modo di protestare, di riappropriarsi del corpo c’è anche una parte di narcisismo, di ambiguità, che non tutto è un gesto politico, ma non me la sento di esprimere un pregiudizio negativo nei loro confronti. Da “vecchia femminista” dico che ogni battaglia ha le sue forme e i suoi gesti». Eppure il fenomeno ha solo cinque anni. Ecco il racconto dell’origine della protesta nelle parole della leader più in vista in questo momento Inna Shevchenko: «Quando abbiamo cominciato era tutto diverso. Eravamo un gruppo di ragazze che si incontravano al bar con le amiche. Volevamo fare qualcosa, protestare contro il turismo sessuale nel nostro Paese. Organizzammo una gigantesca manifestazione con grandi cartelloni. Lo abbiamo fatto per due anni, ma nessuno si è accorto di noi. Eravamo sempre più arrabbiate e intanto anche la rivoluzione arancione (il movimento di protesta che scosse l’Ucraina nel 2004) era fallita. Anzi, già dimenticata. Il nostro primo topless è stato così un atto politico. All’inizio io ero contro, ma volevamo essere radicali nella nostra protesta anche se non eravamo pronte a prendere le armi. Poi ci siamo dette: ma la nostra pistola ce l’abbiamo qui, il nostro corpo li può spaventare. Siamo diventate un fenomeno globale».

E infatti Femen sta dilagando ovunque: partite nel 2008 a Kiev, con la loro fondatrice, l’economista esperta di teatro Anna Hutsol, si sono messe in mostra agli Europei di calcio nel 2012, poi a Istanbul, sulla Tour Eiffel, a Davos, di nuovo a Parigi di fronte alla Grande Moschea e ancora in Vaticano, a Milano, a Londra, Amburgo e infine a Tunisi e di nuovo a Kiev. Ma restano i dubbi se i loro flash mob impressionino per i contenuti o per il topless. Secondo il settimanale tedesco «Die Welt» nel movimento c’è una certa naïveté, «dilettantismo vero e proprio», oltre che non poca opacità nei conti e nella raccolta dei fondi. Non la pensa così Giorgia Serughetti, autrice di Uomini che pagano le donne (Ediesse, 2013) e attiva in «Se non ora quando», ultima incarnazione italiana del femminismo, oggi alla ricerca di un rilancio: «Sono entusiasta delle Femen, è un modo nuovo di portare avanti le stesse battaglie degli altri movimenti femministi. Il corpo nudo ormai è svuotato di carica eversiva, essendo stato commercializzato per decenni. Le trovo molto attuali e contemporanee, senza nulla togliere alle battaglie fatte con le parole». C’è da chiedersi allora perché dalle femministe non sia arrivato un vero e proprio endorsement: «Queste proteste non producono pensiero, sono più spettacolari che altro, tuttavia mandano dei messaggi forti, da non sottovalutare».

Il loro recente approdo nei Paesi musulmani è tra i più controversi: sono state le stesse femministe islamiche a protestare, accusando le compagne «bianche» di un femminismo coloniale e rifiutando un aiuto non richiesto alla loro battaglia: «Le femministe straniere dovrebbero venire ad aiutarci, non ad aggravare il problema, e non saranno loro a salvare le donne non bianche dagli uomini non bianchi» ha dichiarato al «Courrier International» la filosofa statunitense di origine bengalese Gayatri Spivak.

In Italia Femen si sta organizzando con un certo ritardo: i flash mob in piazza San Pietro durante il Conclave e al seggio dove ha votato Silvio Berlusconi a Milano sono stati inscenati dalle «straniere»: «Può sembrare facile spogliarsi in mezzo a una strada, ma non è così, ognuna di noi ha davanti a sé una preparazione sia fisica che psicologica e poi bisogna essere preparate quando si viene bloccate dalla polizia», ha spiegato al Corriere.it la referente del gruppo, che si chiama Mary ed è una studentessa.

«Riconosco la forza della provocazione, ma io sono critica — spiega Lea Melandri, che di battaglie ne ha fatte tante e che ora è impegnata a organizzare l’incontro nazionale di Paestum dedicato e preparato dalle giovani femministe italiane — perché da questo movimento viene messo sotto silenzio tutto quel patrimonio di cultura e pratica politica che è il pensiero del femminismo, si rischia di cancellare un pezzo di storia del movimento. Anche la provocazione alla religione di queste ragazze la trovo fuori luogo: la religione va interrogata, messa in discussione. Quello che temo è che attirino più l’occhio che le coscienze evocando un atteggiamento voyeuristico e non di pensiero».

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