28 Novembre 2014
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Femminismo e neoliberalismo

Pubblicato il 12 ottobre 2014 · 

di Cristina Morini

 

Immerse nella dimensione economico-esistenziale imposta dal neoliberalismo, le nostre vite sembrano schiacciate contro il malinconico orizzonte di cartone privo di prospettiva disegnato dalla crisi economica e dalla crisi della dimensione collettiva della politica. Anche i movimenti sociali sono in affanno, faticano ad aver presa sul reale. Come salvarsi, quando il corpo-mente assume il ruolo del capitale-fisso, diventando il terminale materiale e sensibile delle imposizioni della precarietà in termini di auto-sfruttamento e auto-normazione? Parole e gesti si vanno trasformando in una forma di scambio, agito da una soggettività che si concepisce come un’impresa e che perciò, come un’impresa, deve saperla amministrare.

Imprenditoria di sé, la definisce il libro collettaneo Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, curato da Tristana Dini e Stefania Tarantino. Sullo sfondo di questi saggi, corpi di donna si muovono svelti sui tacchi per le strade della metropoli tra happy hour frequentati per trovare un contatto, utile ai fini di un possibile lavoro. Corpi obbligati a un’attenta manutenzione, la cui dimensione sessuale non viene esclusa ma viene, viceversa, immersa nel lavoro. Il divenire postumano del corpo-macchina è probabilmente anche questo spazio arido, che ci fa scorgere i deserti del desiderio che il soggetto non governa veramente pur mantenendo l’illusione della decisione, come in un gioco perverso di specchi.

Contrastare la prigione trasparente del modello antropogenetico di produzione non è semplice, ci dicono le undici autrici dei saggi contenuti nel libro, tutte provenienti dal pensiero della differenza italiano. Marianna Esposito parla esplicitamente della “necessità di cogliere una complessa sfida teorica che va affrontata per riaffermare il carattere politico, agonistico della libertà femminile all’epoca della governamentalità liberale”. Se questi sono i tempi complessi in cui ci è dato di vivere e, vivendo, di lottare, è necessario smontare gli ingranaggi del sistema, così da potergli resistere, così da potergli opporre una soggettività consapevole.

Il femminismo può contare su antidoti potenti, poiché da sempre ha messo in luce pratiche di disidentificazione per “andare oltre la soggettività assoggettata e mettere al mondo soggettività libere”, scrive Stefania Tarantino nella sua introduzione. Possiamo perciò trarne una lezione di resistenza biopolitica all’altezza dei tempi, poiché il pensiero delle donne si fonda proprio sul rifiuto dell’interiorizzazione dei modelli imposti e contrasta in ogni modo la cancellazione dell’autonomo sentire del soggetto.

Ma, data la propensione corrosiva del neoliberismo, non vi è alcuna ispirazione che possa sentirsi oggi al riparo da criticità, aporie e contraddizioni. Un passato di lotte e di analisi dirompenti del “primo femminismo” non ha evitato, per esempio, che la teorica femminista americana Nancy Fraser esprimesse una critica serrata (un’autocritica) al femminismo contemporaneo, emancipazionista, accusato di aver spianato la strada proprio al neoliberalismo (si veda, oltre all’articolo di Fraser uscito sul Guardian nell’ottobre dello scorso anno, il suo libro Fortunes of Feminism: From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, Paperback, 2013, in corso di traduzione per Ombre Corte a cura di Anna Curcio).

Fraser interroga il femminismo statunitense ed europeo della seconda ondata. Mentre la generazione precedente aveva cercato di intervenire sul piano dell’economia politica, a partire dagli anni Ottanta il femminismo si focalizzata sulla trasformazione della cultura e sulla politica del riconoscimento. Non spinge più per radicalizzare i presupposti socialdemocratici della società, ma gravita attorno a nuove grammatiche di rivendicazione politica. Tutto ciò, come è già stato fatto notare, preme, in prima istanza sulla necessità di contestualizzare e definire il campo situando il femminismo e i femminismi, relativizzando la parola del primo mondo e della razza bianca poiché altrove si è arrivati all’ora X meno sguarnite. Ma l’attacco di Fraser costituisce uno spunto per riflettere sullo stato dell’arte da parte del pensiero della differenza e viene infatti utilizzato da diverse autrici (Dominijanni, Bazzicalupo, Esposito, Stimilli).

Laura Bazzicalupo nota che “il neoliberismo è una forma di razionalità politica, una forma di governo che si pratica con l’autogoverno” e che dunque, per reagire al neoliberismo, non è sul piano delle rivendicazioni economiche che è necessario muoversi bensì su quello “del tempo e del soggetto, di una nuova ontologia”. Dominijanni aggiunge la attribuzione del valore della differenza sessuale, “antidoto all’Uno e alla logica identitaria ma anche al suo rovesciamento speculare nella logica del molteplice”; antidoto al godimento imposto,”fallico, narcisista, ripetitivo, seriale”, ingiunto al soggetto dal sistema per poter esistere. Godere di consumo, di dissipazione, di successo e godere soprattutto di un sesso che si pretende “svuotato di percezione si sé, intimità, affettività, statuto del desiderio”. Perciò, più che “sul piano dell’economia e del lavoro, il nodo del rapporto tra neoliberismo e femminismo viene al pettine qui, sul piano della sessualità”. Quel territorio, la sessualità, decisivo per il femminismo degli anni Settata diventa oggi il terreno principale del riaddomesticamento del femminile neoliberale. Esposito indica la necessità di agire “un’analisi lucida dei rapporti di potere messi in campo dal neoliberismo e una riflessione attenta sulle sue dinamiche libidiche di consenso e di produzione di soggettività”.

Si ammette, insomma, in modo profondo e articolato, l’inquinamento inquietante dei processi di soggettivazione a opera del capitale (che fa, bene o male, la parte dell’innominato: gli si preferiscono termini come “sistema neoliberista”, “patriarcato”, “sistema post-fordista”), ma non si assume una critica che abbia a che vedere, più immediatamente, più direttamente, con la struttura dei rapporti economici e sociali. Si ammette Foucault, ma non si ammette Marx, potremmo sintetizzare. E per quanto Marx sia andato stretto a tutto il pensiero femminista, tuttavia la produzione contemporanea di soggettività, nelle larghe pieghe dell’esistenza “cosificata” e messa in competizione che in queste pagine viene lucidamente descritta, genera valore sui rarefatti mercati finanziari, processi di sussunzione “illuminati” o vitali, individualizzazione, furti di tempo. Insomma, si traduce in un indicibile sfruttamento del corpo-mente.

Si spinge, certo, ricordando la filosofa Angela Putino che, “di fronte alla pratica della relazione ridotta a imprenditoria di sé, volta a vincere a tutti i costi, oppone il rilancio delle teorie femministe e di un essere fuori gara basato sul desiderio come eccedenza” come nota Tristana Dini. La sollecitazione è particolarmente preziosa in tempi di politica del riconoscimento, narcisismo e meritocrazia. Ogni retorica si è completamente sbriciolata contro il nulla raggelato dell’economia della eterna promessa, e allora è finito il momento di puntare alla valorizzazione dei “talenti” o a forme “altre” della decisione e della organizzazione del potere. Ciò che si pone come compatibile rischia infatti di venir neutralizzato, di venir recintato, di volta in volta. La razionalità del sistema economico neoliberale mette a rischio il contenuto rivoluzionario della libertà femminile.

Se è senz’altro vero che il neoliberalismo non opera “come un potere esterno che cala dall’alto i suoi imperativi bensì come un governo dell’auto-governo che fa presa sul desiderio dei soggetti” (Dini), sarà altresì necessario analizzare come tutto ciò venga “organizzato” dal capitale, a partire da quali norme sociali predeterminate, strutture di classe, dispositivi polizieschi, diseguaglianze sanguinanti. Il biocapitalismo ha incredibilmente affinato le proprie capacità di cattura ma a ben vedere mantiene, e anzi amplia, anche se lo fa su basi diverse dalla sola appartenenza di genere e con modalità differenti, i propri eterni progetti di esclusione differenziale.

Questo libro ci parla, indubbiamente. È completamente fuori discussione che la ricerca vada condotta verso la creazione di saperi situati utili a poter fare una corretta diagnosi della situazione. L’esperienza materiale, quotidiana, senziente che stiamo facendo dell’“ordine simbolico dato dalla razionalità neoliberale” (Dini) diviene un metodo del discorso fondamentale perché ci aiuta a orientarci all’interno della novità delle relazioni di potere imposte.

Tuttavia, il pensiero postfemminista, i movimenti LQBT, il femminismo materialista , il pensiero femminista operaista, il femminismo nero e postcoloniale hanno riconosciuto per tempo la condizione precaria, conoscono bene che la discriminazione di genere non è un fattore solamente culturale ma ha radici materiali che affondano profondamente nell’organizzazione capitalistica del lavoro. Nel momento in cui, poi, l’economia finanziaria ha ricondotto ogni singolo atto a una misura per l’accumulazione, dilatando le forme della cattura tra lavoro retribuito e non, insieme ai dispositivi strutturalmente incorporati nel potere patriarcale, sembra ancor più stringente la necessità di essere più precise nell’individuare le intersezioni esistenti tra rapporti tra generi e rapporti sociali.

Si dissolve l’illusione che la “differenza femminile” – quando non coniugata con un agire conflittuale, intendendo con ciò la necessità di assumere una curvatura politica pronta a denunciare ogni sistema di potere e di repressione dell’“alterità” attraverso un’azione sovversiva – sia di per sé sufficiente a rovesciare l’ordine maschile del discorso, grazie al perseguimento di un’umanità relazionale e di cura in grado di incidere sulle condizioni materiali di vita, modificando dall’interno le istituzioni. Ciò è avvenuto solo in parte mentre le accelerazioni imposte dalle trasformazioni neoliberiste del lavoro (oggi esemplificata in Italia dal Jobs Act) hanno creato più macerie che opportunità nella vita delle donne. La questione della libertà delle donne va allora nuovamente spostata sulle questioni generali, cioè sulle battaglie da intraprendere collettivamente, recuperando con forza i concetti di diseguaglianza e di ingiustizia sociale.

A partire dalla ricchezza innegabile dell’analisi agita sul più ininterrotto dei rapporti di potere, quello costruito sulla diversità biologica tra maschio e femmina, la problematica generale foucaultiana, cioè l’idea che il potere attuale presupponga sempre un certo grado di libertà, si rivela un elemento centrale nella critica attuale al capitale, una componente essenziale del confronto critico sull’organizzazione contemporanea della forza lavoro. La capacità di lettura delle dinamiche capitaliste pur senza trascurare l’importanza della libertà negativa che è di solito associata al liberalismo, deve stare al centro dell’azione di ogni femminismo, nel presente. Solo così, e dentro una connessione larga di tutti gli attori sociali antagonisti, si potrà recuperare radicalità, rivendicando appieno un ruolo nella lotta contro il biopotere, riconnettendo la propria storia con quella delle nuove generazioni di donne alle prese con la condizione precaria. Citando Nancy Fraser, “Nessun serio movimento sociale, e meno che mai quello femminista, può ignorare l’assalto alla riproduzione sociale attualmente condotta dal capitale finanziario”.

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