17 Giugno 2021
#VD3

Femminismo in videoconferenza / Feminismus per Videokonferenz


di Antje Schrupp


Nel marzo 2020 molte delle mie attività politiche si sono interrotte spontaneamente: gli incontri regolari con le coautrici (provenienti dalla Svizzera, dall’Austria e dalla Germania) del nostro libro ABC della buona vita, così come con la redazione in presenza della rivista online bzw-weiterdenken; ora ci incontreremo finalmente il primo agosto dopo molti mesi di videoconferenze.

Fortunatamente la pandemia ci ha colpite in un periodo in cui abbiamo a disposizione mezzi alternativi di comunicazione che ci hanno permesso di continuare a lavorare ai nostri progetti e di restare in contatto nonostante l’impossibilità di viaggiare. Se le videoconferenze all’inizio sembravano solo un ripiego, si sono rivelate, nel corso dei mesi, una valida alternativa. Solo che prima non le avevamo prese in considerazione anche se questa tecnologia esisteva prima della pandemia. Ma senza la pandemia e la conseguente urgenza di sperimentare qualcosa di nuovo, probabilmente non le avremmo ancora scoperte.

È soprattutto per i progetti che coinvolgono persone fisicamente distanti tra loro che la videoconferenza offre grandi vantaggi: nonostante le lunghe distanze e limitate disponibilità di tempo ci si può incontrare in qualsiasi momento, anche per sole due ore. Mi ha fatto piacere vedere qualche gruppo una volta al mese invece di due o tre volte all’anno. Ciò ha comportato alcuni cambiamenti, per esempio abbiamo potuto discutere un argomento con più continuità. I timori iniziali che il mezzo potesse avere un impatto negativo sulla qualità delle nostre discussioni non si sono avverati. Anzi, abbiamo scoperto che le discussioni su determinati argomenti possono essere ben strutturate e focalizzate tramite videoconferenza.

Ma secondo me è stato fondamentale che ci fosse già una relazione tra le partecipanti, che ci conoscessimo prima e avessimo sviluppato una fiducia reciproca. D’altronde, mi piaceva poter “avere un assaggio” di alcuni gruppi e progetti per i quali altrimenti non avrei trovato l’energia necessaria: un conto è collegarmi per due ore a una videoconferenza a Berlino, un conto è recarmi fin là da Francoforte senza avere un legame abbastanza forte. In questo modo sono venuta a conoscenza di parecchie cose che altrimenti mi sarei persa, ma non è che ne siano nati dei contatti più intensi. Le videoconferenze possono essere un primo passo, ma per “conoscere veramente” le persone, alla fine bisogna andare a trovarle.

Nei gruppi esistenti, tuttavia, abbiamo apprezzato la comodità delle videoconferenze senza che la qualità dello scambio ne risentisse. Inoltre, la tecnologia ci ha stimolate a inventare nuovi formati come le “videoconversazioni”: a turno, una redattrice della nostra rivista online invita altre tre a uno scambio su un film o un libro. La conversazione viene registrata e poi pubblicata sul sito web. Ci divertiamo molto con questo formato, e riceviamo molti feedback positivi. Senza la pandemia, probabilmente non ci sarebbe venuta questa idea.

Dicevo che la qualità delle relazioni preesistenti è decisiva per il buon funzionamento o meno della videoconferenza e questo è stato confermato anche dal fatto che abbiamo evitato di affrontare i conflitti durante questo periodo. Le questioni aperte prima della pandemia lo sono tutt’ora; quasi come se avessimo rimandato le questioni spinose “a data da destinarsi”. Non so con precisione se questo sia veramente dovuto alla tecnologia in quanto tale, o piuttosto alla situazione pandemica in cui paure e conflitti erano comunque molto presenti, per cui tutte eravamo semplicemente un po’ più caute. Comunque, non credo che sia utile fare discussioni di principio su cosa sia meglio – videoconferenze o incontri in carne e ossa: entrambi presentano vantaggi e svantaggi. Sono formati diversi, quindi bisogna decidere caso per caso quale sia quello più adatto. Prima della pandemia non avevamo nel nostro repertorio l’opzione della videoconferenza, e durante la pandemia non avevamo a disposizione l’opzione delle riunioni “analogiche”. Nel periodo postpandemia saremo per la prima volta nella situazione felice di avere una vera scelta tra le due, e sono molto curiosa delle discussioni che ne nasceranno.

Nei progetti in cui sono attiva non ci siamo mai poste la domanda se in futuro potremo fare a meno delle riunioni in carne e ossa, in nome della semplificazione. Non ne sono rimasta sorpresa perché l’ho sperimentato da molto tempo nei social media: se conosci una persona in rete che ti è simpatica e hai uno scambio con lei per un certo periodo, prima o poi inevitabilmente nasce il desiderio di incontrarla in presenza. Semplicemente perché gli incontri fisici hanno una qualità speciale che non si può ottenere con nessun mezzo di comunicazione.

Tuttavia, la questione dell’interazione tra tecnologie internet e politica risulta molto interessante anche in una prospettiva più ampia: c’è da chiedersi come noi femministe usiamo questi media e come trarne dei vantaggi senza negare o perdere di vista i loro svantaggi e pericoli. Penso che sia proprio l’esperienza della politica di relazioni tra donne a contibuire a una visione più libera delle possibilità e dei limiti delle tecnologie internet.

L’euforia sulle possibilità dell’intelligenza artificiale, per esempio, che da anni regna sovrana nella Silicon Valley mentre tutt’ora niente di sostanziale ne è stato sviluppato, è dovuta a un certo tipo di hybris maschile e a un’ignoranza di ciò che è l’essenziale di una relazione significativa. In ogni caso, io non trovo nulla di intelligente in ciò che generalmente viene chiamato “intelligenza artificiale”. Per me intelligenza significa la capacità di portare nel mondo qualcosa di nuovo, qualcosa di tuo, con l’intenzione (politica) di dare un contributo sensato. E invece, ciò che finora è stato chiamato intelligenza artificiale sono semplicemente procedure computazionali perfezionate che eseguono indicazioni di principio programmate dall’esterno. È vero che queste procedure computazionali automatizzate – cioè gli algoritmi – oggi sono in un certo senso autonome, perché non forniscono solo risultati, ma continuano a loro volta, a sviluppare gli algoritmi. La conseguenza è che gli stessi programmatori non sono più in grado di prevederli, cosa che qualcuno percepisce come “intelligente”. Invece sappiamo che le macchine non agiscono sulla base di proprie riflessioni e decisioni etiche, ma sulla base delle istruzioni che hanno ricevuto dai programmatori. Il fatto che si sia perso il controllo dimostra solo le capacità limitate della cognizione umana, non è una prova dell’intelligenza delle macchine.

Tuttavia, naturalmente è un problema se i programmatori non hanno più il controllo sulle conseguenze delle procedure computazionali da loro stessi messe in moto. È sempre più evidente che le macchine non sono state programmate in modo “neutro”: ci sono iscritti i pregiudizi e le valutazioni sbagliate di un ordine simbolico maschile. I “maschi bianchi borghesi” della Silicon Valley hanno immesso i loro pregiudizi direttamente nelle fondamenta dell’architettura di Internet, come fa vedere in modo impressionante il documentario Coded Bias della regista statunitense Shalini Kantayya. Questo sviluppo è così pericoloso perché sempre più decisioni, anche di natura politica e sociale, si basano su questo tipo di algoritmi. Se neanche chi li ha programmati conosce le regole che seguono gli algoritmi, è difficile riacciuffarli. È il consolidamento di un ordine simbolico maschile in procedure apparentemente “neutre”, solidificate in strutture tecniche. È qui che bisogna intervenire politicamente: fanno bene le studiose e le attiviste di tutto il mondo che agiscono in questo senso.

Quindi, quando dico che gli algoritmi e la tecnologia internet non sono “intelligenti”, non significa che siano innocui, anzi. Significa che con la nostra intelligenza e, soprattutto, grazie alla pratica delle relazioni, abbiamo acquisito un sapere per contrastare le conseguenze dannose. Il centro dell’agire politico, cioè lo scambio tra coloro che amano la libertà, lo scambio sulle loro idee concrete, soggettive e i loro desideri – tutto questo non è “algoritmabile” perché è un evento unico e contingente. È l’esatto opposto dei Big Data, dove il singolo e la singola è irrilevante per definizione. Nessun algoritmo al mondo è in grado di prevedere cosa nascerà da uno scambio tra due donne in cui circolano desiderio e autorità.

In principio non è nient’altro che il lavoro verso un altro ordine simbolico. Anche l’ordine simbolico del patriarcato sembra egemonico fin quando non viene smascherato come caratteristica strutturale e fin quando non nasce un altro ordine simbolico femminile. Il conflitto politico sull’utilità e i rischi della tecnologia internet non si apre tra coloro che apprezzano questa tecnologia e coloro che la condannano. Ma si apre là dove possiamo distinguere tra ciò che possiamo aspettarci da queste tecnologie – e ciò che non possiamo aspettarci, appunto.


(Traduzione dal tedesco di Traudel Sattler, Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 17 giugno 2021)


Feminismus per Videokonferenz. Was wir vom Internet erwarten können und was nicht


Von Antje Schrupp


Im März 2020 wurden viele meiner politischen Aktivitäten spontan gestoppt: Im April hatten wir in Utrecht ein Treffen der Autorinnengruppe rund um das ABC des guten Lebens (https://abcofgoodlife.wordpress.com/) geplant, seit vielen Jahren kommen wir zwei oder dreimal im Jahr zusammen. Doch aus der Schweiz, Österreich und Deutschland konnten wir nicht in die Niederlande einreisen. Erst jetzt endlich, im August 2021, werden wir uns wieder sehen.

Auch in der Redaktion der online-Zeitschrift „Beziehungsweise Weiterdenken“ (https://www.bzw-weiterdenken.de/) haben wir im kommenden August nach vielen Monaten Video-Konferenzen zum ersten Mal wieder ein Treffen in Rüsselsheim im Christel-Göttert-Verlag geplant.

Es war ein Glück, dass diese Pandemie uns in einer Zeit getroffen hat, wo es alternative Medien gibt. So konnten wir trotz der Unmöglichkeit zu reisen an unseren Projekten weiterarbeiten und in Kontakt bleiben. Waren die Videokonferenzen anfangs nur eine Notlösung gewesen, so hat sich im Lauf der Monate gezeigt, dass sie durchaus eine Alternative sein konnten. Wir hatten diese Möglichkeit vorher einfach nicht auf dem Schirm gehabt, obwohl sie als Technologie ja bereits vor Corona existierten. Aber ohne die Pandemie und den damit verbundenen Zwang, etwas Neues auszuprobieren, hätten wir sie vermutlich noch immer nicht entdeckt.

Gerade für Projekte, deren Teilnehmerinnen weit voneinander entfernt leben, haben Videokonferenzen große Vorteile: Man kann sich trotz großer Distanzen und engen Zeitplänen jederzeit treffen, auch mal für zwei Stunden. Ich fand es schön, manche Gruppen statt zwei oder dreimal im Jahr jetzt monatlich zu sehen. Einiges an unseren Diskussionen hat sich dadurch verändert, zum Beispiel konnten wir ein Thema auch mal kontinuierlicher verfolgen. Anfängliche Befürchtungen, die Qualität unserer Gespräche würde unter dem Medium leiden, haben sich nicht bewahrheitet. Vielmehr haben wir die Erfahrung gemacht, dass gerade inhaltliche Diskussionen über Videokonferenzen sehr gut strukturiert und fokussiert abgehalten werden können.

Ich denke aber, es hat dabei eine Rolle gespielt, dass unter den Beteiligten bereits eine gewisse Beziehung bestand, dass wir uns schon vorher kannten und gegenseitiges Vertrauen entwickelt hatten. Es hat mir durchaus aus Spaß gemacht, in dieser Zeit in einige Gruppen und Projekte hineinzuschnuppern, für die ich die Energie ansonsten nicht aufgebracht hätte, zum Beispiel mich mal für zwei Stunden in eine Konferenz in Berlin einzuloggen, mit der ich nicht eng genug verbunden bin, um dafür von Frankfurt aus hinzufahren. So habe ich einiges mitbekommen, was mir ansonsten entgangen wäre – intensivere Kontakte sind daraus aber nicht entstanden. Videokonferenzen können ein erster Schritt sein, aber um Menschen „wirklich kennenzulernen“, muss man letztlich wohl doch hinreisen.

In bestehenden Gruppen aber haben wir die Bequemlichkeiten von Videokonferenzen durchaus genossen, ohne dass die Qualität gelitten hat. Teilweise hat uns die Technik sogar dazu inspiriert,  neue Formate zu erfinden, wie zum Beispiel die Videogespräche aus der bzw-Redaktion, wo jeweils eine Redakteurin drei andere zu einem Austausch über einen Film oder ein Buch einlädt. Das Gespräch zeichnen wir auf und veröffentlichen es hinterher auf der Webseite. Das macht uns selbst sehr viel Spaß, und wir bekommen auch viele positive Rückmeldungen dazu. Ohne Corona wären wir wahrscheinlich auf diese Idee nicht gekommen. (https://www.bzw-weiterdenken.de/video-gespraeche/).

Dass die Qualität von bereits bestehenden Beziehungen ein wichtiger Faktor dafür ist, ob Videokonferenzen gut funktionieren oder nicht, zeigt sich auch daran, dass wir Konflikte in dieser Zeit eher nicht bearbeitet haben. Was diesbezüglich vor der Pandemie offen war, ist es auch jetzt noch, fast als hätten wir die heiklen Dinge „auf Wiedervorlage“ gelegt. Ich bin mir nicht ganz sicher, ob der Grund dafür wirklich die Technologie als solche ist oder eher die allgemeine Pandemie-Situation, in der Ängste und Konflikte ohnehin sehr präsent waren, sodass einfach alle diesbezüglich etwas vorsichtiger waren. Jedenfalls sind Grundsatzdiskussionen darüber, was besser ist – Videokonferenzen oder Treffen in Fleisch und Blut – meiner Meinung nach nicht hilfreich, weil eben beides Vor- und Nachteile hat. Es sind unterschiedliche Formate, und deshalb ist zu entscheiden, in welchen Fällen das eine und in welchen Fällen das andere sinnvoll ist. Vor Corona hatten wir die Option Videokonferenzen nicht im Repertoire, während Corona hatten wir die Option von „analogen“ Treffen nicht verfügbar. Nach Corona werden wir daher erstmals in der glücklichen Lage sein, uns wirklich zwischen beidem entscheiden zu können, und auf diese Diskussionen bin ich schon sehr gespannt.

In den Projekten, in denen ich aktiv bin, stellte sich nicht für eine Sekunde die Frage, ob wir der Einfachheit halber auf Treffen in Fleisch und Blut in Zukunft ganz verzichten können. Das hat mich nicht überrascht, weil ich diese Erfahrung schon lange in den Sozialen Medien kenne: Wenn man im Internet eine Person kennenlernt und mag und über eine gewisse Zeit mit ihr in Austausch steht, dann entsteht früher oder später unweigerlich das Bedürfnis, sie auch in Fleisch und Blut zu treffen. Einfach weil körperliche Begegnungen über eine besondere Qualität verfügen, die über keine Medium zu erreichen ist.

Aber auch in einem weiteren Sinn ist das Thema der Wechselwirkung zwischen Internettechnologien und Politik sehr interessant. Die Frage ist, wie wir als Feministinnen mit diesen Medien umgehen und ihre Vorteile nutzen, ohne dabei ihre Nachteile und Gefahren zu verleugnen und aus den Augen zu verlieren. Ich denke, gerade eine Politik der Beziehungen unter Frauen hat Erfahrungen, die zu einem freiheitlichen Verständnis der Möglichkeiten und Grenzen von Internettechnologien beitragen können.

Die Euphorie über die Möglichkeiten von künstlicher Intelligenz zum Beispiel, die im Silicon Valley seit Jahren herrscht, ohne dass tatsächlich schon etwas Substanzielles daraus entwickelt worden wäre, verdankt sich einer bestimmten Art männlicher Hybris und einer Unwissenheit gegenüber dem, was bedeutungsvolle Beziehungen im Kern ausmacht. Jedenfalls finde ich an dem, was im Allgemeinen „künstliche Intelligenz“ genannt wird, überhaupt nichts Intelligentes. Unter Intelligenz verstehe ich die Fähigkeit, etwas Neues, Eigenes in die Welt zu bringen in der (politischen) Absicht, etwas Sinnvolles beizutragen. Was bisher künstliche Intelligenz genannt wird, sind aber einfach nur sehr hoch skaliertes Rechenverfahren, die prinzipielle Vorgaben ausführen, die von außen hinein programmiert worden sind. Diese Automatisierung von Rechenvorgängen – also Algorithmen – sind zwar inzwischen in dem Sinne selbstständig, dass diese Maschinen heute nicht mehr nur Ergebnisse ausspucken, sondern die Algorithmen auch selbst weiterentwickeln. Dass hat dann zur Folge, dass die Programmierer selbst sie nicht mehr vorhersehen können, was dann von manchen als „intelligent“ wahrgenommen wird. Aber die Maschinen handeln ja nicht aufgrund eigener ethischer Erwägungen und Entscheidungen, sondern aufgrund der Vorgaben, die sie von den Programmierern bekommen haben. Dass die die Kontrolle verloren haben, ist lediglich ein Beweis für die begrenzten Kapazitäten der menschlichen Erkenntnis, nicht ein Beweis für die Intelligenz der Maschinen.

Trotzdem ist es natürlich ein Problem, wenn die Programmierer die Folgen der von ihnen angestoßenen Rechenvorgänge nicht mehr unter Kontrolle haben. Denn immer deutlicher zeigt sich, dass die Maschinen nicht „neutral“ programmiert wurden, sondern dass die Vor- und Fehlurteile einer männlichen symbolischen Ordnung in wie eingeschrieben sind. Die „weißen bürgerlichen Männer“ des Silicon Valley haben ihre eigenen Vorurteile direkt in die Grundarchitektur des Internet einfließen lassen. Das zeigt sehr eindrücklich der Dokumentarfilm „Coded Bias“ der US-Amerikanischen Regisseurin Shalini Kantayya, der auf Netflix zu sehen ist. Diese Entwicklung ist deshalb so gefährlich, weil immer mehr Entscheidungen auch politischer und gesellschaftlicher Art auf solchen Algorithmen basieren. Wenn nicht einmal diejenigen, die sie programmiert haben, noch wissen, nach welchen Regeln Algorithmen überhaupt funktionieren, ist es schwer, sie wieder einzufangen. Es ist die in technische Strukturen gegossene Verfestigung einer männlichen symbolischen Ordnung in angeblich „neutrale“ Verfahrensweisen. Hier muss dringend politisch interveniert werden, und es ist gut, dass überall auf der Welt Wissenschaftlerinnen und Aktivistinnen darauf hinwirken.

Wenn ich sage, dass Algorithmen und Internettechnologie nicht „intelligent“ sind, bedeutet das also nicht, dass sie ungefährlich wären, ganz im Gegenteil. Es bedeutet aber, dass wir mit unserer eigenen Intelligenz und vor allem der Praxis der Beziehungen durchaus ein Wissen darüber haben, wie wir diese schädlichen Folgen verhindern können. Das Zentrum des Politischen, nämlich der Austausch zwischen freiheitliebenden Personen über ihre konkreten, subjektiven Ideen, Wünsche, ihr Begehren – das ist nicht „algorithmisierbar“, weil es ein einzigartiges, kontingentes Ereignis ist. Es ist das genaue Gegenteil von „Big Data“, bei dem der Einzelfall per Definition ganz unwichtig ist. Kein Algorithmus der Welt ist in der Lage, vorauszuberechnen, was im Gespräch zwischen zwei Frauen, in dem Begehren und Autorität zirkulieren, herauskommt.

Im Prinzip ist das ja nichts anderes als die Arbeit an einer anderen symbolischen Ordnung. Auch die symbolische Ordnung des Patriarchats erscheint hegemonial, solange sie noch nicht als strukturierendes Merkmal erkannt ist und eine andere, weibliche symbolische Ordnung entstanden ist. Der politische Konflikt über den Nutzen und die Gefahren von Internettechnologie verläuft nicht zwischen denen, die diese Technologien gut finden und denen, die sie verdammen. Sondern er verläuft da, wo wir unterscheiden können, was genau wir von diesen Technologien erwarten können – und was aber eben auch genau nicht.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 17 giugno 2021)


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