29 Marzo 2013
Internazionale

Femministe non “pentite”

di Laurie Penny

Che ci sarà mai di tanto spaventoso nella parola “femminismo”? Negli ultimi mesi, mentre giravo per il mondo te­nendo conferenze contro il capitali­smo e a favore dei diritti delle donne, ho sentito gli stessi discorsi tante volte. Uomini che mi dicevano: “Non sono femminista, sono per la parità”. O ragazze che mi spiegavano che, pur cre­dendo nel diritto di tutti a percepire lo stesso salario per lo stesso lavoro, pur condannando le violenze sessuali, pur pensando che le donne abbiano il di­ritto di godere di tutte le libertà di cui gli uomini godono da secoli, non sono fem­ministe. Sono un’altra cosa, qualcosa che somiglia molto a essere femministe ma senza usare quella parola.

La parola “femminismo” è diventata impronunciabile nella buona società. Se la usi significa che potresti volere qualco­sa che non si può ottenere rimanendo educatamente in attesa che qualche uo­mo al potere renda il mondo un po’ più equo. Indica insoddisfazione, perfino rabbia, e la rabbia non si addice alle ragazze educate. Spesso sono le stesse donne ad aver paura di parlare di femminismo. In tanti anni di impegno, ho sentito dire molto spesso che questo concetto deve essere “rivisto”, che bisogna trovare un modo migliore, meno aggressi­vo, per chiedere che le donne e le ragazze siano trattate come esseri umani e non come schiave o sciocchi og­getti sessuali. È una soluzione tipica di quest’epoca di pubblicità: basta ammorbidire un po’ il femminismo e si riuscirà a venderlo perfino ai più scettici. Ma se una versione annacquata della lotta delle donne per la pari­tà di diritti può bastare per vendere scarpe, cioccolatini e lavori noiosi nel settore dei servizi, la vera politica femminista – che vuole garantire alle donne il pieno controllo della loro vita e del loro corpo – sembra un prodotto molto più difficile da vendere. Comunque si scelga di chiamarla, la reale parità di diritti sarà sempre una prospettiva terrificante per gli uomini che si preoc­cupano di perdere i loro privilegi. Non c’è da meravi­gliarsi se lo stereotipo del femminismo è ancora quello di un movimento aggressivo, popolato di pazze furiose che vogliono distruggere i maschi.

I giornali scandalistici, le riviste per soli uomini e le sitcom presentano una serie di stereotipi sul femmini­smo. Che si concentrano sempre sui dettagli più insi­gnificanti: un articolo in cui si discute se è da femmini­ste depilarsi le ascelle attirerà sicuramente molti più lettori sul sito web di un quotidiano in difficoltà di uno sul fatto che le lavoratrici part-time non hanno diritto alla pensione. Questo genere di stereotipi funziona per un motivo: fa leva sulle nostre paure più profonde per quello che potrebbe significare la parità tra i sessi. Per esempio, le accuse rivolte alle femministe di essere brutte, mascoline, e “pelose”, implicano che quando sono troppo determinate le donne rischiano di perdere la loro identità di genere. Gli uomini che hanno il corag­gio di dichiararsi femministi rischiano di essere consi­derati effeminati o accusati di fingere di esserlo per conquistare le donne. Questi attacchi sono doppiamen­te efficaci perché contengono un pizzico di verità: il femminismo è una minaccia per i vecchi ruoli di genere, ma solo per­ché mira a ridefinirli.

Tuttavia, uno dei motivi per cui con­tinuo a scrivere, parlare e lanciare cam­pagne sui temi del femminismo è proprio perché rispetto gli uomini, e quindi sono convinta che siano qualcosa di più delle creature bidimensionali alle quali li ridu­ce il concetto “tradizionale” di virilità. È perché rispetto gli uomini che credo che la maggior parte di loro non voglia vivere e morire in un mondo che opprime le donne. Perché sono femminista e non per la parità? In primo luogo perché una donna che cerca solo l’uguaglianza manca di immaginazione. Non mi interessa la parità con gli uomini in un sistema di classi e di potere che sta lenta­mente togliendo ogni traccia di spirito combattivo alla maggior parte delle persone che non hanno avuto la fortuna di nascere ricche. Non mi accontento di vedere qualche donna in più nei consigli di amministrazione delle banche. Penso che per il mondo sarebbe un posto migliore se non ci fossero né donne né uomini in quei consigli, soprattutto se le banche vogliono continuare a scaricare i debiti causati dalla loro irresponsabilità sulle spalle delle donne povere del mondo. Se questo vi sem­bra poco realistico, non lo è certo meno dell’idea che nell’arco della nostra vita raggiungeremo la parità tra i sessi all’interno di questo sistema.

In secondo luogo sono femminista perché in Gran Bretagna la parità dei sessi sta tornando indietro come una bigotta che scappa da una riunione di ragazze ma­dri. Il recente rapporto Sex and power dell’organizzazio­ne Counting women in ha dimostrato che negli ultimi anni la presenza delle donne ai massimi livelli della po­litica, dei mezzi di comunicazione, degli affari e delle arti è diminuita molto. Se ci teniamo davvero alla parità tra uomini e donne, non possiamo aspettare che il siste­ma di potere diventi un po’ più equo. Le tendenze gra­duali possono sempre regredire oltre che progredire. Ora più che mai non basta essere “per la parità”.

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