17 Febbraio 2013
Il Sole 24 Ore

«Gender e donne: non fermarsi mai»


Agli inizi degli anni Settanta le ragazze della Northwestern University di Chicago si rivolsero a lei, la prof di Storia sociale a cui potevano parlare liberamente del femminismo che era esploso sotto i loro occhi, trovando il terreno fertile di chi era cresciuta in una famiglia di sinistra a Brooklyn, madre e padri insegnanti, sensibili alla politica e alle scintille sociali. E Joan Wallach Scott raccolse le sollecitazioni delle studentesse, avviò (unica docente in un Dipartimento di soli uomini) un corso di “Storia delle donne” partendo dal sillabo di due colleghe del Canada, muovendo così i primi passi in un percorso che, anni dopo, contribuirà a decretarne la fama. Nel 1986, infatti, pubblica sull’«American Historical Review» un saggio che segna un prima e un dopo in questo campo: Gender: A Useful Category of Historical Analysis.
«Nel corso di quegli anni l’interesse per le donne, la rabbia contro le discriminazioni erano andati progressivamente aumentando. Si moltiplicavano articoli, grossi convegni, paper importanti, con la consapevolezza di scoprire nuovi territori di studio, in un’atmosfera di grande entusiasmo. Io ho sintetizzato diverse esperienze, portandole nel solco della Storia», racconta Scott, dopo la lecture tenuta all’Università di Padova in occasione del VI Congresso delle Società italiana delle Storiche, dove è stata accolta con grande calore.
L’aver codificato in termini formali la categoria del gender ha avuto un impatto concreto nella battaglia femminile per l’emancipazione e contro la disuguaglianza tra i sessi: «Con la comparsa prepotente del “genere” si è stabilito che la biologia e la natura non determinano che cosa significhi essere uomo e donna: i loro comportamenti, il loro lavoro e modo di vivere possono cambiare nel tempo», spiega con pacatezza e forza al contempo Joan Scott. «Ci sono molti esempi, senza scomodare l’ultimo, e il più facile, dei matrimoni omosessuali. Basti pensare che in passato le donne non potevano fare il medico perché si riteneva fosse una professione non appropriata per loro. O ricordare invece gli studi sulla classe operaia francese dell’Ottocento che mostrano come le donne si sobbarcassero una grande fatica fisica».
Siamo dunque quel che siamo non in virtù dei nostri cromosomi ma in virtù dell’interpretazione esclusivamente sociale dei ruoli maschili e femminili. In questo senso si può dire che la mutevolezza nel tempo ha giocato a favore delle donne? La loro condizione è migliorata, o si eccede in ottimismo? «Oggettivamente le cose sono molto cambiate. Le donne oggi lavorano. Fanno gli avvocati, i medici appunto, insegnano nelle Università. Certo, sulla rappresentanza politica, a parte i Paesi scandinavi, siamo molto indietro: nelle grandi democrazie occidentali, come Stati Uniti e Inghilterra, è sempre un men’s game», sorride amara. Poi aggiunge che ovviamente il quadro è articolato, dipende da quale area geografica e quale segmento sociale prendiamo in esame: «Mi colpisce che ciò che sembrava acquisito negli anni Settanta, come il diritto all’aborto o alla contraccezione, è di nuovo messo in discussione per via della destra religiosa. Tornando al lavoro, sul fronte della working class la situazione femminile è sempre molto dura. Penso per esempio alle donne che emigrano dal Sud del mondo per andare a lavorare nelle case della middle class dell’Occidente, e poi mandare i soldi nei Paesi d’origine».
Ecco perché quello che si fa in termini di sostegno alle politiche contro le ineguaglianze, la prevaricazione, l’oppressione, non è mai abbastanza. Anche le organizzazioni internazionali, come UN Women, il “braccio pro-donne” delle Nazioni Unite nato nel 2010 e guidato dall’ex presidente del Cile Michelle Bachelet, o il Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination against Women), per la Scott sono realtà utili, «meglio averle che non averle. Portano l’attenzione a livello internazionale» su temi che altrimenti scivolerebbero nell’oblio. «E nonostante le storie di corruzione o di aggiustamento dei dati che a volte le coinvolgono, mettendone in dubbio l’integrità, hanno il loro peso, benché siano solo una tessera del puzzle del cambiamento politico-sociale», conclude con realismo.
In questa chiacchierata a tutto campo, non può mancare un cenno alle quote rosa, questione molto dibattuta anche in Italia, dove trova spesso concrete manifestazioni: la prossima riguarda l’annunciata elezione del 40% di donne parlamentari nelle file del Pd alle politiche del 24 e 25 febbraio. Discriminazione positiva sì, o discriminazione positiva no? Scott, con l’esperienza dei suoi 71 anni, non ha dubbi: «È una buona cosa. Intanto perché riconosce la discriminazione invisibile che c’era prima, in base alla quale solo i maschi erano ritenuti qualificati per quella posizione. Chiaramente non è risolutiva. Il punto è trovare i candidati messi da parte in precedenza per cattive ragioni. Ma d’altro canto è l’unica via che esiste per contrastare la discriminazione».
L’incontro volge al termine, per la professoressa è la prima volta a Padova e conta di andare a vedere la Cappella degli Scrovegni. Ma prima le comunico che quasi certamente una donna di 46 anni, Natalie Nougayrède, sarà la prossima direttrice del quotidiano francese «Le Monde». Un moto di gioia le anima il viso: conosce benissimo la Francia essendo una storica esperta di quel Paese, oltre che dei gender studies. È una notizia, a suo modo, una piccola bella notizia che unisce le due passioni della sua vita.

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