di Elvia Franco (Maestra elementare per 35 anni)
La spettacolarizzazione dei bambini di “Ti lascio una canzone” merita un appunto. Un appunto che riguarda la dabbenaggine degli adulti i quali assimilano, mi pare, gli occhi infantili, e gli occhi appena adolescenti, a delle fonti in cui riflettersi e compiacersi di sé, come Narciso.
Non hanno ritegno questi adulti a riversarsi dentro quegli occhi con un desiderio di specchiarsi e godere, un desiderio esigente che domanda, e comanda da loro, originalità, bravura, freschezza. E i bambini cantano proprio così le loro canzoni che li fa piangere di piacevolissime lacrime.
I bambini cantano le loro canzoni. Le bambine cantano le loro canzoni. Sono canzoni che hanno avuto grande successo. Ma quante lo hanno ottenuto spinte verso una forma da un movimento sincero del cuore, da quegli affetti vivi e ben sentiti che, se espressi, donano gioie immense, chiamano in vita nuove energie? E quante a tavolino sono state prodotte dalla ragione calcolante e astuta? Da quella ragione che sa che qualora siano toccate le corde dei sentimenti arrivano anche il successo e il denaro, perchè la gente è disposta a osannare, quando il suo mondo interiore assume una parvenza di canto e di rappresentazione, anche in assenza dello slancio del vero.
E i bambini cantano queste canzoni. Cantano queste finzioni. E sono felici. Tutti sono felici, le famiglie, il pubblico, la giuria. La presentatrice poi è sommamente felice. “Così si manda la canzone italiana nel mondo”, ha detto l’altra sera a proposito di alcuni ragazzi. Ma il Va pensiero non va e non commuove il mondo, senza che Verdi sia stato, mi sembra, a “Ti lascio una canzone”?
I bambini sono felici.
Non si vede proprio in che stato sono quando cantano, come si dimenano, come imitano, come cercano performance ineccepibili, con l’occhio già rivolto al successo mediatico, al culto dell’immagine, alla tensione verso il denaro tanto più vissuta, quanto più nascosta, perchè la dabbenaggine adulta chiede anche questo, chiede scaltrezza, occultamento degli obiettivi, maschera? E i bambini felici, i bambini cantanti, desertificano intanto il loro mondo interiore, prigionieri di un modello straniero, mentre tutto di loro vuole verità, creazione, salti di gioia, estro e curiosità del meglio per farsi anche loro costruttori del meglio. Togliere loro l’accesso al meglio è imperdonabile. Il meglio. Il meglio in quanto ad arte, pensiero, vita profonda, visione del mondo che diventa cultura in ogni cultura, lavoro di ogni lavoro.
La dabbenaggine, fattasi verbo, afferma che la cultura è pesante, il pensiero grave e greve, la profondità di parola macigno. Come se pensiero ed arte, verità e sogno, non fossero le espressioni più aeree della vita! Altroché pesantezza, altroché sbadiglio e noia! La dirigenza RAI, che promuove cose ottime, perchè è così poco perspicace quanto tratta di queste bambine e bambini?
Perché non pensa alle canzoni dei popoli, canzoni dialettali, canzoni regionali, canzoni del nostro paese e delle genti che ora stanno fra noi e con noi, canzoni a cui donne e uomini hanno affidato il cuore, e con il cuore, gli eco misteriosi dell’interiorità che non si lascia seppellire, che vuole fiorire. E fiorisce nel canto. Perché non pensa alle canzoni delle madri? Alle universali canzoni delle madri che nelle ninne nanne si sono elevate a trovare vita e gioia, non accanto a fazzoletti bagnati esibiti, o portafogli gonfi, ma nella visione di volti di bimbi e di bimbe che si pacificano e che passano in un’onda di beatitudine, attraverso la notte, verso l’alba dell’indomani.