23 Gennaio 2016

Giustizia al femminile

Corso di formazione “giustizia al femminile”
Coordinamento del gruppo di studio: introduzione

di Elisabetta Tarquini

Negli uffici nei quali si amministra la giustizia del lavoro la presenza femminile è come noto consistente, soprattutto in primo grado, ma sempre di più in tempi recenti, anche nelle corti superiori.
Questa profonda trasformazione nella composizione dell’ordine giudiziario si è sovrapposta nella nostra materia ad una profondissima trasformazione, a una rivoluzione anzi, della disciplina giuridica delle relazioni negoziali da cui nascono le controversie che noi giudici del lavoro siamo chiamati a governare e dirimere.
Una rivoluzione questa che ha avuto una direzione e un senso inequivocabili: la progressiva erosione delle tutele universali, assicurate al lavoratore in quanto tale, in quanto contraente in un rapporto che è riconosciuto, oltre l’uguaglianza formale, in fatto disuguale, e come parte di un conflitto ritenuto socialmente necessario (e infatti variamente regolamentato, ma anche garantito nella possibilità del suo svolgersi).
Questo apparato di garanzie si articolava intorno alla norma inderogabile (cioè non derogabile in danno del lavoratore) e alle tutele ripristinatorie (in primo luogo la reintegrazione nel posto di lavoro) e quindi al potere – dovere del giudice di applicare il rimedio astrattamente più efficace, cioè il ripristino dello status quo ante.
Queste tutele sono state progressivamente sostituite, negli ultimi anni con interventi sempre più radicali, da fattispecie non solo di monetizzazione, quanto di forfettizzazione del danno che l’esercizio dei poteri datoriali può causare al lavoratore, di sua predeterminazione in misura fissa e quindi misurabile ex ante.
In questo modo l’obiettivo del sistema sanzionatorio non è più, proprio non è più dichiaratamente, quello di assicurare il ripristino della situazione giuridica violata e neppure, almeno negli ultimi approdi normativi, quello di approntare un sistema di deterrenti delle violazioni, quanto quello di garantire alle parti quali attori economici del contratto e del processo, ma in effetto al datore di lavoro, di conoscere anticipatamente il costo della violazione della legge.
La tutela dei diritti dei lavoratori si sposta infatti secondo il progetto del legislatore (sulla cui effettiva realizzazione ci sarebbe molto da dire, ma si tratta di un tema eccedente il nostro) dal rapporto al mercato del lavoro, attraverso il sistema dei rimedi di welfare, mentre all’interno del rapporto l’effettività di quei diritti è, semplificando al massimo, affidata largamente al diritto antidiscriminatorio, che, ampiamente alimentato dalle fonti normative dell’Unione, tutela non più il lavoratore in quanto tale, ma come persona portatrice di alcuni caratteri (originari o frutto di scelte consapevoli) che la legge protegge avverso comportamenti lesivi socialtipici.
L’intreccio di questa rivoluzione con la progressiva femminilizzazione dell’organico della magistratura del lavoro, soprattutto nei luoghi dove più si accerta il fatto e quindi negli uffici di primo grado, ha comportato che noi donne e giudici del lavoro sempre più di frequente ci troviamo ad applicare un diritto che, nelle norme di derivazione eurounitaria, trova il proprio archetipo regolativo nella discriminazione di genere e che è tributario di molte cose, ma comunque anche e molto, del pensiero femminista della differenza.
Un diritto incentrato sul carattere funzionale dei divieti (indipendentemente dai motivi soggettivi dell’agente) e sull’effettività delle riparazioni, che è molto diverso dai dispositivi di tutela che noi giudici del lavoro siamo abituati ad utilizzare e che offre tuttavia prospettive forse inedite di tutela dei diritti.
D’altra parte mentre noi donne giudici del lavoro ci troviamo sempre più spesso di fronte a controversie nelle quali dobbiamo applicare questi strumenti giuridici così differenti, nel contempo queste cause ci mettono di fronte, anche in tal caso sempre più spesso, alla condizione di donne, le parti di quei giudizi, che affrontano difficoltà lavorative che, pur all’interno di un rapporto di lavoro molto più tutelato come il nostro, non ci sono sconosciute.
Così per esempio credo dicano qualcosa anche a noi come donne lavoratrici le vicende di altre donne, dirigenti o comunque lavoratrici molto qualificate che incontriamo come parti nei giudizi, le difficoltà che esse affrontano per mettere insieme i tempi di un lavoro completamente assorbente con quelli di vita, al rientro dalla maternità, ma anche e più generalmente quando le esigenze del lavoro di cura (che ha, ci insegna il pensiero della differenza, un suo autonomo valore sociale) diventano pressanti. Sono problemi che anche noi conosciamo, perché anche noi ci confrontiamo con la difficoltà di ricostruire modelli organizzativi all’origine pensati per lavoratori maschi, e anche e prima con la visione che quei modelli rifletteva (essa ben più radicata dei modelli stessi), una visione rispetto alla quale noi, i nostri corpi eravamo, siamo il non ancora o il non abbastanza.
Ugualmente credo parlino anche a noi le (ancora poche) controversie nelle quali si affrontano le questioni relative alla legittimità dei criteri prescelti per le progressioni professionali, poiché ci mostrano l’esistenza di criteri apparentemente neutri e tuttavia idonei a effettivamente ridurre le possibilità delle donne di accedere a queste progressioni.
E’ un tema che ci riguarda se, secondo i dati riportati nel lavoro di Rita Sanlorenzo che è tra i materiali del corso, alla data del 1° luglio 2013, su 9181 magistrati in servizio, il 48% è donna: quasi la metà a cinquant’anni dalla legge che consentì anche alle laureate di sesso femminile di partecipare al concorso per uditore giudiziario1.
A fronte di questo dato tuttavia quanto alla magistratura giudicante, le donne occupano il 31% dei ruoli semidirettivi, e non più del 20% per quel che riguarda i ruoli direttivi; più esigue ancora le percentuali per ciò che concerne la magistratura requirente, ove le percentuali si attestano rispettivamente al 15 ed al 12%.
E se è vero che, come risulta dalle ultime elaborazioni del Csm, è diminuito negli anni il differenziale tra le percentuali di presenza dei due generi nelle posizioni direttive o semidirettive, si tratta tuttavia di una crescita nettamente più lenta di quella che contrassegna i dati degli ingressi in carriera, in cui il “sorpasso” è avvenuto già nel 1987 e, dopo alcuni anni incerti, si è stabilizzato su una maggioranza quasi schiacciante (rispettivamente, è donna il 61% delle vincitrici del concorso del 2010, il 65% di quello del 2012, il 66% di quello del 2013).
E dalle vicende che giudichiamo come giudici possiamo vedere anche che i criteri apparentemente neutri, ma in effetto discriminatori, hanno comunque sempre a che vedere con il modo diverso con cui le donne occupano il tempo e le spazio del lavoro, con la loro più ridotta disponibilità a flessibilizzare variamente lo svolgimento della prestazione (cambiando orari, cambiando luogo di lavoro, per noi cambiando funzioni) e questo generalmente perché si trovano più immediatamente a contatto con i tempi, spesso incomprimibili, della vita e della cura delle persone.
Tra i materiali del corso troverete alcune decisioni che ci sono sembrate particolarmente rappresentative sia delle tipologie di queste controversie sia dell’attuazione del paradigma di tutela proprio del diritto antidiscriminatorio, del suo ricercare l’effettività, attraverso rimedi che mirano al raggiungimento della parità dei diritti attraverso la valorizzazione delle differenze.
Da tutte o quasi emerge variamente la questione più radicale: se e con quali modalità assicurare la differenza femminile in organizzazioni sempre più incentrate sulla flessibilità del lavoro a fronte delle variabili richieste di organizzazioni produttive fondate sul sistema del just in time, nelle quali il lavoro, fattore della produzione come gli altri, deve essere disponibile solo quando serve, non prima e non oltre.
E se quindi alla tutela del lavoro femminile, nella sua ineliminabile differenza, sia sufficiente il tradizionale schema emancipatorio (variamente declinato, da noi in maniera comunque certamente insufficiente per le note deficienze dei sistemi di welfare) o se piuttosto la peculiarità del lavoro delle donne non sia il luogo in cui emerge con maggior chiarezza l’impossibilità di equiparare il lavoro, il lavoro di tutte e di tutti, agli altri fattori della produzione.
Il lavoro delle donne, e quindi anche il nostro lavoro, ci pone necessariamente di questo a tema perché, come scriveva Luisa Muraro “la differenza sessuale è un fatto che la storia moltiplica per mille e i conti non tornano mai, per cui, se qualcuno si mette a fare il conto dei capolavori e delle scoperte, quanti gli uomini, quanti le donne, e fa notare che però gli uomini di più, la risposta può essere solo questa, che le donne avevano altro da fare, fra cui portare avanti la partita aperta già ai primordi dell’umanità, che era …di spendersi per i viventi e di cercare la propria ricompensa nell’amore”.
1 Legge n.66 del 1963, approvata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n.33 del 1960.


(www.libreriadelledonne.it, 23/1/2016)

Print Friendly, PDF & Email