di Mauro Muscio e Andrea Tornese
Il 26 novembre le nostre compagne, di vita e di lotta, scenderanno in piazza a Roma al grido Non una di meno, riprendendo lo stesso slogan, Ni Una Menos, delle mobilitazioni femministe che a partire dall’America Latina stanno attraversando il mondo.
La manifestazione sarà aperta dalle donne con uno striscione unitario e a seguire il corteo misto di partecipanti che si riconoscono nella lotta contro la violenza maschile sulle donne. Sarà una manifestazione femminista – per questo organizzata e guidata da donne – e sarà mista. Abbiamo voluto interrogarci sulla partecipazione degli uomini al corteo, non tanto per ribattere a sterili polemiche aperte nei giorni scorsi, ma per dare un contributo a chi si interroga sulla modalità con la quale gli uomini potrebbero sostenere le donne nella loro lotta contro la violenza sistemica, economica, sociale e culturale del patriarcato.
«Gli uomini che vogliono essere femministi non hanno bisogno di ricevere spazio nel femminismo. Devono prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista».
Queste parole della femminista inglese Kelly Temple offrono sicuramente un interessante spunto di riflessione da cui partire. Non è una banalità ricordare infatti che qualsiasi forma di femminismo nella storia e nei luoghi geografici è nato per opera delle donne e si è costituito, organizzato, evoluto, frammentato per opera delle donne. E ciò è accaduto, per dirla molto semplicemente, per trovare delle risposte alle oppressioni degli uomini. Le correnti femministe hanno portato avanti una discussione sulla vita degli uomini più di quanto gli uomini lo abbiano fatto consciamente su sé stessi, così come ogni oppresso riflette sulla propria condizione a partire dai privilegi che identifica in quelli che lo opprimono. Questo spiega in gran parte perché un uomo non sa se può aver senso definirsi femminista, poiché sa di usare un termine creato e costruito politicamente su misura di donna.
Gli uomini possono essere femministi? O possono solo sostenere la lotta femminista? Kelly Temple risponde difendendo lo spazio femminista (spazio inteso qui come luoghi fisici e soprattutto come discorsi, simboli, linguaggi, teorie e pratiche) il quale, giustamente, non avrebbe motivo di dover concedere uno spazio agli uomini perché, diciamo noi, non avrebbe senso né per gli uomini e né, soprattutto, per le donne. Quello che dice l’autrice è qualcosa di molto più complicato e corretto; gli uomini che vogliono definirsi femministi devono agire nella società, cambiarla, trasformarla e renderla femminista, e lo devono fare però – e qui il nodo complicato – senza pretendere di determinare il luogo femminista, ma ricevere il “pacchetto completo” farlo proprio e diffonderlo sfruttando positivamente la loro posizione di privilegio.
Che cosa sia la violenza per una donna lo sa solo una donna, e lo può legittimamente dire solo una donna. Come uomini quello che possiamo fare è ascoltare, fare nostro e fare in modo, come possiamo, che quel tipo di violenza non accada più, almeno per mano nostra. Il saper accettare di non determinare l’esperienza femminista è il primo passo, non scontato, di alleanza maschile con il femminismo. Si tratta quindi per gli uomini di avere un ruolo passivo nel volersi alleare con il bagaglio culturale femminista? Al contrario, è un ruolo di partecipazione attiva.
L’autrice però sottintende inevitabilmente anche un’altra cosa, ossia che debba esserci una relazione tra femministe e uomini, una relazione non imposta, necessaria o doverosa, ma anzi politica. Alla manifestazione #NiUnaMenos del 19 ottobre scorso a Santiago del Cile tra i partecipanti ha suscitato scalpore la presenza di un uomo senza maglietta che portava un cartello con su scritto: “Sono seminudo, circondato dal sesso opposto… e mi sento protetto, non intimidito. Voglio lo stesso per loro”. La foto che lo ritraeva è diventata virale sui social media trasformando l’uomo in un’icona dei “femministi”.
Il suo messaggio, pur definito geniale da più parti, in realtà porta con sé una contraddizione su cui riflettere: sfruttando il binarismo di genere e i suoi stereotipi, l’uomo ha sostenuto un’idea della donne come elementi passivi, protettivi e materni, fedeli ed inoffensive compagne. Le solite femministe esagerate? O come a tanti ignoranti piace definire, le solite nazifemministe? No. Piuttosto la costante incapacità culturale degli uomini di farsi da parte, la necessità di dover esserci – magari anche con nobili intenzioni – con una modalità egoriferita che esemplifica perfettamente la costante violazione maschile degli spazi delle donne; una ricerca di protagonismo spesso sinonimo di femminismo di facciata (tanto più che l’ex compagna dell’uomo, riconoscendolo sui social network, lo ha smascherato e ha raccontato le violenze che lei e la figlia hanno subìto). Aggiungiamo che inoltre sotto un certo punto di vista mediatico sembra abbia fatto più scalpore la presenza di un uomo in quel corteo piuttosto che il numero enorme di donne presenti.
Siamo cresciuti in una cultura sessista, l’abbiamo assorbita e ne siamo inevitabilmente portatori. Gli uomini, e chiunque venga riconosciuto come tale, godono di un privilegio a livello culturale, sociale e politico; esistono ruoli nella società, che mutano e si trasformano, ma che si declinano in ruoli di vantaggio e svantaggio, privilegio e non privilegio. Non è una visione vittimistica della società, è la società. Se non esistessero questi ruoli non vivremmo in contesti socio-culturali in cui patriarcato e capitalismo si legano quasi in un unicum nella filiera di produzione-riproduzione-normatività-sfruttamento-esclusione.
Gli stereotipi di genere non incidono solo a livello culturale ma, relegando le donne ai ruoli di cura, limitano il loro orizzonte professionale ed economico.
I tagli agli asili nido e alle case di cura, insieme all’assenza quasi totale di assistenza e welfare per anziani e disabili, costringe le donne a sopperire a queste carenze facendosi carico delle cure necessarie. Lo Stato risparmia nella cura dei propri cittadini facendo leva sul senso culturale diffuso che questo sia un compito destinato alle donne. Donne che rinunciano al lavoro, alla carriera, all’emancipazione economica e, non ultimo, al tempo libero.
La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è più bassa di quella maschile. Non è un caso che, dal punto di vista della parità lavorativa, l’Italia sia al 114esimo posto della classifica mondiale per la presenza di donne negli incarichi manageriali e terzultima in Europa. In termini di retribuzione a parità di ruolo, l’Italia si trova al 128esimo posto nel mondo, fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei. Guadagnano in media il 6,9 per cento in meno dei loro colleghi uomini e fino al 10 per in meno nei settori impiegatizi.
A partire da questo gli uomini possono agire in maniera corretta nell’alleanza al femminismo. Sapere di essere giudicati in un certo modo e posti nel mondo perché uomini, socialmente uomini; sapere di agire in un certo modo nelle relazioni perché educati a farlo in un modo da uomini; essere consapevoli che il corpo maschile, costruito socialmente su canoni e norme maschili, determina lo spazio in cui si trova; e accettare di mettere in discussione questo sempre, con qualsiasi persona, indipendentemente dal genere, è il ruolo attivo con cui gli uomini possono rendere femminista il mondo.
Senza ripercorre gli incontri e scontri tra i movimenti femministi e movimenti LGBT*Q, ci basta qui sottolineare come il risultato tra i due percorsi produsse la critica agli stereotipi maschili e, nei momenti migliori, riuscì a produrre pratiche di liberazione. La scelta di un corteo misto per il 26 è un traguardo per il femminismo e non solo; è una scelta politica che chiama le donne a trovare negli uomini e nelle soggettività LGBT*Q giusti alleati per combattere la cultura sessista. La produzione di norme oppressive per le soggettività non maschili passa attraverso la necessaria costruzione di ruoli maschili di oppressione. Anche gli uomini, infatti, possono fare esperienza, occasionalmente o in maniera costante, di come agisce il machismo e l’eteronormativià: non tutti gli uomini corrispondono allo stereotipo del maschile; e chi non aderisce alla norma, a partire da quella sui ruoli di genere, è vittima di violenza ed esclusione (In questo senso Abbattiamo i muri ha lanciato la campagna “per raccontare la normatività che agisce sul maschile”: #MascolinitàFragile).
Gli stereotipi si modificano nel tempo, e questo anche perché il potere cambia e cede spazi di libertà per assicurarsi l’egemonia e per delegittimare i percorsi di liberazione. Ma non c’è ceretta che tenga o sopracciglia rifatte. Esiste un punto che definisce la differenza tra uomo e donna e a partire da quello si costituiscono i ruoli di privilegio o svantaggio.
Questo quindi basta per dire che saremo tutt* femminist* il 26? No, ed è banale dirlo, perché non è una vagina che rende automaticamente donne e soprattutto perché non tutte le donne sono femministe. Quante donne in nome dell’uguaglianza hanno adottato e adottano pratiche e linguaggi maschili per sentirsi più uguali?
Lo sappiamo bene anche noi frocie, perché abbiamo fatto esperienza, all’interno della comunità LGBT*Q, che pure ha subito e subisce forme di discriminazione e violenza patriarcale, di individui e soggettività che adottano pratiche etero ed omonormative. Mano a mano che le esperienze e i diritti LGBT diventano più accettati e riconosciuti, cresce la voglia di far parte della cultura dominante, normata. Inseguendo questo desiderio, pur di diventare accettabili, meritevoli di spazio politico e diritti, spesso si perpetuano pregiudizi, valori e comportamenti omolesbotransfobici e misogini che danneggiano e marginalizzano molte persone all’interno della stessa comunità LGBT*Q. Non saremo tutt* femministi, perché gli uomini, in tutti i casi, difficilmente potranno capire realmente, soprattutto quelli bianchi, eterosessuali e di classe sociale medio-alta, cosa comporti essere oppressi, minoranza, esclus* o dimenticati nella vita di tutti i giorni.
Saremo una coscienza collettiva che a partire dalle nostre identità, storie, desideri, lotte, esperienze e sconfitte, non si arrende all’idea che la violenza maschile sulle donne è una parte strutturale del sistema e che svelare il suo funzionamento e le sue forme più subdole significa svelare la violenza necessaria su cui si fonda il sistema di produzione, riproduzione e normalizzazione.
Il 26 novembre saremo alleati delle femministe nella lotta contro il patriarcato. E sarà una manifestazione produttiva se, come uomini, metteremo in discussione il nostro privilegio, culturale e socio-economico; se dalla sera stessa cercheremo di modificare parte del nostro comportamento nei confronti delle nostre compagne, amiche, madri, sorelle, zie, nipoti, vicine di casa, colleghe, etero, lesbiche o trans* se scaveremo a fondo per capire quanto di omofobo e sessista abbiamo ancora da decostruire in noi stessi.
Saremo femministi quando non sentiremo l’esigenza di declinare femminista al maschile per sentirci inclusi. Consapevoli di questo possiamo definirci alleati delle femministe, pront* a decostruire i ruoli a partire dalle nostre posizioni nella società.
(www.communianet.org, 21 novembre 2016)