di Alessandro Portelli
A cento anni dalla nascita dell’eroina african-american Tra Mito e Storia. Fu protagonista e non vittima. Stufa di essere stufa, proprio come gli schiavi
Questa storia l’ho raccontata altre volte, ma vale la pena di farlo ancora, oggi che la sua protagonista viene onorata alla Casa Bianca e le fanno un monumento per celebrare i cento anni dalla nascita.
Nel 1981 ero a Highlander, in Tennessee, uno storico centro di formazione di quadri di base prima nel sindacato e poi nel movimento per i diritti civili, nel pieno del Sud segregazionista. Stavo appena scambiando i saluti con il direttore, Mike Clark, quando entrò in ufficio la compagna del centralino e disse: «Mike, c’è Rosa Parks al telefono». Bastarono queste parole per farmi capire che fino ad allora non avevo capito niente del movimento per i diritti civili, a cui pure dovevo le mie prime emozioni politiche.
Rosa Parks era la signora che nel 1956, a Montgomery, Alabama, era stata arrestata per aver rifiutato di alzarsi da un posto riservato ai bianchi in autobus. Quel gesto diede il via al grande boicottaggio dei trasporti pubblici da parte della comunità afroamericana, durato più di un anno, e alla decisione di individuare come portavoce un giovane ministro battista appena arrivato in città, Martin Luther King. Il resto, come suol dirsi, è storia.
Il racconto che ci era sempre stato fatto su Rosa Parks era che si trattava di una signora anziana che aveva i piedi gonfi ed era troppo stanca per alzarsi. In realtà, come mi spiegò subito Mike Clark, Rosa era la segretaria della sezione di Montgomery della Naacp (l’Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore), e poco tempo prima di compiere quel gesto aveva partecipato a un seminario di formazione politica proprio a Highlander (a Highlander c’era stato anche Martin Luther King, e i razzisti avevano riempito il Sud di cartelloni con le foto di «King alla scuola comunista». Poco tempo dopo, Highlander fu data alla fiamme). Rosa Parks, insomma, non era una vecchia signora (aveva 42 anni!): era una militante politica pienamente consapevole del suo gesto. «L’unica cosa di cui ero stufa e stanca era di essere stufa e stanca», disse più tardi.
Va detto che la storia della povera signora coi piedi gonfi ha avuto una sua utilità, generando quel moto di compassione verso le vittime e gli oppressi che ha caratterizzato gran parte della simpatia e solidarietà di cui ha goduto il primo movimento per i diritti civili, e contribuendo così ad allargarne la base e la risonanza. Ma il prezzo pagato è stato quello di presentare, ancora una volta, gli afroamericani come vittime, non come protagonisti (è anche la storia della guerra civile e della liberazione degli schiavi: come ci ha spiegato, dati alla mano, il grande storico afroamericano W. E. B. DuBois, se non fosse stato per la fuga in massa degli schiavi dalle piantagioni, il Nord la guerra non l’avrebbe mai vinta. Altro che Lincoln che libera gli schiavi – sono gli schiavi che salvano Lincoln dalla sconfitta!). In qualche modo, l’idea che i progressisti bianchi avessero il dovere di “aiutare” il movimento, per quanto nobile fino al sacrificio (ricordiamo Viola Liuzzo, per esempio), conteneva in potenza l’idea che in realtà gli spettasse il compito di dirigerlo. Sarà su questo che si verificherà nel 1964 la grande rottura promossa da Stokely Carmichael lanciando lo slogan «black power»: i neri erano capaci di fare anche da soli.
Come Rosa Parks, erano stufi di essere stufi anche tutti i neri di Montgomery e di tutta l’America- L’immagine vittimistica di Rosa Parks ha fatto sì che quasi nessuno si ponesse la domanda: ma come è possibile che per l’arresto di una sconosciuta cucitrice coi piedi gonfi, in un paio di giorni l’intera comunità nera aderisce al boicottaggio? Non sarà che erano preparati e organizzati e aspettavano solo il momento?
Raccontò poi E. D. Nixon, sindacalista nero e altro dirigente della Naacp di Montgomery, il vero protagonista del boicottaggio: «Appena venimmo a sapere di quello che era successo a Rosa Parks, ci attaccammo subito al telefono e avvertimmo tutta la comunità». Oltre tutto, non era la prima volta che una donna nera veniva arrestata per la stessa ragione; era successo almeno altre due o tre volte, ma per una ragione o per l’altra le persone coinvolte potevano essere screditate dalla macchina propagandistica del sistema segregazionista (una aveva reagito violentemente, un’altra aveva un precedente di arresto, e così via). Rosa Parks era assolutamente inattaccabile; addestrata com’era alla pratica della non violenza, aveva reagito all’arresto con fermezza e dignità inappuntabili. Quando successe, erano pronti.
Mi face capire che mentre siamo sempre disposti a riconoscere agli oppressi e ai marginali le emozioni e le sofferenze, raramente ci viene in mente di riconoscergli anche l’intelligenza – e invece, di intelligenza, di organizzazione, di consapevolezza è fatta la storia del movimento a cui Rosa Park aprì la strada col suo gesto. Di solito, quando racconto la storia della telefonata di Rosa Parks a Highlander, aggiungo: «Mi sarei emozionato di meno se mi avessero detto che aveva telefonato Carlo Marx». Forse è perché che Carlo Marx appartenesse alla Storia lo sapevo già; ma fino ad allora Rosa Parks era stata soprattutto icona e Mito, riassunta in un unico gesto simbolico, un solo giorno. Rendermi conto che, un quarto di secolo dopo, era ancora in contatto con le istanze più radicali della lotta sociale nel Sud me la riportò in un attimo dal Mito alla Storia. Perciò fanno bene le istituzioni statunitensi e il presidente afroamericano a dedicarle omaggi, statue e francobolli: il Mito ha le sue funzioni e la sua utilità, parla ai sentimenti, alle emozioni, all’immaginario. Ma la Storia ci insegna ad immaginare diversamente, a cercare di raffigurarci una donna intelligente e indomabile che ha continuato tutta la vita, dagli autobus segregati di Montgomery ai ghetti di Chicago, a impegnarsi nei movimenti, sempre su posizioni avanzate e radicali, fino alla fine.