24 Agosto 2014
Crriere della sera

Il coraggio di rispondere «non so»

di Maria Luisa Agnese e Daniela Monti


Ti senti a tuo agio a dire «non so»?
Katty Kay: «Sì, ho imparato a sentirmi a mio agio».


Claire Shipman: «All’inizio no. Quando ho cominciato a seguire come giornalista la Casa Bianca, sentivo di dover sapere tutto. Politica estera, bilancio. Sono una perfezionista. Poi, con il tempo, ho imparato che è ok anche dire: su questo tema ci sto ancora lavorando».

Ci vuole coraggio a rispondere «non so». E infatti non tutti lo fanno. Lo fanno le donne, molto più degli uomini. Ma pochissime di loro sarebbero disposte a chiamare «coraggio» questo ammettere di non sapere, soprattutto durante una importante riunione di lavoro o nel corso di una discussione in cui sarebbe utile — per la carriera, ma anche semplicemente per l’amor proprio — fare bella figura. Più che di «coraggio» viene spontaneo parlare di «suicidio», professionalmente parlando.
Chi dice «non so» si mette all’angolo da solo. È come un terreno arido, gli altri distolgono lo sguardo. Del resto «il deserto è un luogo privo di aspettative», scriveva Nadine Gordimer.

A Katty Kay e Claire Shipman, le giornaliste protagoniste dello scambio di battute (tratto da un’intervista al New York Times) che apre questo articolo, il merito di aver rilanciato il dibattito sulla cronica mancanza di fiducia in se stesse delle donne. Il «non so» è una delle espressioni più cristalline di questa mancanza. È un dubitare non solo di ciò che si sa, ma anche di ciò che si è. «Proponetevi per le promozioni! — esorta Laszlo Bock, manager di Google —. Se una donna dice di sentirsi pronta, lo è già da un anno». Ma come mai le donne raramente si sentono pronte? Perché hanno sempre mille dubbi: «Non so se sono abbastanza preparata per quell’incarico»?

Anche gli uomini hanno qualche dubbio, ma non per questo si fanno fermare nella loro corsa.

Anzi tirano a indovinare, quando non sanno, e magari vanno a segno. Perché il punto è che non sempre si tratta di spacconate, ma, appunto, di fiducia in se stessi. E il fattore «sicurezza» – rivela un cospicuo numero di studi — è più importante della competenza nel favorire la carriera. Chi è convinto delle proprie capacità è più convincente.


«Avere talento non è sufficiente — avverte Cameron Anderson, psicologo dell’Università di Berkeley —. La fiducia in sé, reale, non costruita, è parte del talento. E bisogna averla per eccellere».

Il saggio delle due giornaliste, Confidence Code, ormai citatissimo, parte dalla constatazione che anche le donne di grande successo hanno una irreversibile e insospettabile tendenza a sottovalutarsi, a sedersi all’angolo del tavolo. Alcune addirittura si sentono un po’ impostore, se non delle usurpatrici, quando occupano posti di comando. Capita a donne che hanno scalato tutte le posizioni come Arianna Huffington e Sheryl Sandberg — due fra i nomi più celebrati — e capita a tutte noi, infinitamente più in basso nella scala evolutiva del potere al femminile (guardate la video-inchiesta Le Donne e il Potere).

Le donne si interrogano, dubitano e, a un certo punto, si fermano. Come convincerle a proseguire?

Le possibili vie d’uscita sono due: o smettiamo di dire «non so», imparando la lezione maschile, o cominciamo a considerare quel modo di porci non come una mancanza, ma come un passaggio a Nord Ovest, un valore da consegnare alle generazione future.

«Qualche anno fa, sulla scia della crisi finanziaria, si è riconosciuto come l’eccessiva sicurezza in se stessi di molti uomini fosse un pericolo per loro stessi e per il loro Paese. E adesso viene chiesto alle donne di scimmiottare il comportamento dello sbruffone di successo?», s’interroga Amanda Hess su Slate. No, non può essere questa la strada.

«In generale, prendo positivamente il “non so” delle donne di fronte a una domanda di cui non conoscono la risposta come una dimostrazione concreta di una evoluta coscienza del limite», riflette Anna Rosa Buttarelli, docente di Ermeneutica e Filosofia della storia all’Università di Verona, impegnata da anni nel pensiero e nella politica della differenza. Per Buttarelli quella femminile non è una vocazione speculativa al dubbio, piuttosto una vocazione alla auto consapevolezza e a coltivare una particolare coscienza critica che non scivola mai nel dubbio a oltranza. «Non commettiamo l’errore di inserire le donne nella tradizione cartesiana in cui si assimila l’essere al pensare dubbioso — avverte —. Niente di più lontano. “Non so” significa riconoscere che il sapere e la capacità di conoscere sono limitati».


È un cambiamento di prospettiva: il «non so» da paradigma di sfiducia in se stesse a dubbio fecondo, che porta dei frutti. «La forma mentis generale delle donne che coraggiosamente sopportano il “non sapere” (ne faccio proprio una questione di coraggio) può essere una grande risorsa rivoluzionaria per la condizione umana storica — riprende Buttarelli —. Unire pensiero e azione, pensare e parlare in pubblico, nelle donne segue un processo e delle difficoltà che non vanno d’accordo con le prassi pubbliche attuali. Ci sono donne che, sentendosi così differenti rispetto ai comportamenti imposti generali, perdono fiducia nella loro capacità di agire e di pensare. Questo è un problema. Ma è un problema anche che in area anglosassone le femministe insistano a leggere i comportamenti femminili non allineati ai paradigmi maschili come difetti delle donne, come inadeguatezze colpevoli. Lamentarsi continuamente indebolisce e immiserisce, ed è un errore di pensiero».

La paure di fallire, che blocca molti talenti femminili su posizioni di retroguardia, più semplici da presidiare, va affrontata a viso aperto. Jessica Bacal nel suo Mistakes I Made at Works, errori che ho fatto sul posto di lavoro, racconta i fallimenti che sembravano catastrofici di 25 donne di successo, le quali hanno saputo trarre da quegli episodi insegnamenti per rialzarsi. Il messaggio è: così come ci sono molti modi per avere successo, ci sono molti modi di vacillare. E comunque andare avanti.

Teresa Budetta, 26 anni, laurea in Bocconi, racconta il trauma dell’ingresso nel mondo del lavoro. «Il mio primo stage è stato in una banca d’investimento a Londra. L’autostima che avevo coltivato con gli ottimi voti è crollata. Avevo molte idee, ma ogni volta che dovevo proporle al mio capo mi assaliva una sensazione di nausea. Stanca di restare dietro le quinte ne ho parlato con un’ex compagna di università e ho capito che è un problema condiviso, solo che nessuna lo ammette ad alta voce». Teresa continua il suo racconto spiegando come il mentoring abbia dato una svolta alla sua carriera: «Confrontarmi con donne di successo, talento e di straordinaria ispirazione mi ha dato la forza per credere che anch’io posso farcela e di trovare dentro di me il coraggio per superare queste paure».

Ridurre tutto all’individuo, alle insicurezze che ciascuna si porta dentro, è dunque un errore di prospettiva. Perché, come dimostra il racconto di Teresa, l’autostima personale può di più se poggia su un’autostima di genere, come un nano sulle spalle di un gigante. E qui nasce spontanea la domanda: la mancanza di fiducia non sarà dunque il riflesso di una cultura che non dà alle donne alcuna ragione per sentirsi sicure di sé?

Buttarelli ha provato a rispondere con il libro Sovrane. L’autorità femminile al governo, uscito per il Saggiatore, dove mostra il sesso femminile come esempio eccellente di autorevolezza amorosa e di sapienza imprevista e differente. «Bisogna dare sempre più spazio e voce a donne sapienti — spiega —. Poi bisogna far studiare l’immenso patrimonio di cultura scritta che ormai abbiamo prodotto. Bisogna farlo studiare nelle scuole e nelle università (che seguono bibliografie arretratissime e tutte maschili). Bisogna farlo studiare ai formatori e alle formatrici. Oramai ci sono tutte le condizioni per affermare l’autorità, la libertà, il pensiero delle donne. La misoginia maschile è ben radicata e fa ancora ostacolo, ma la realtà e la sua complessa trasformazione sono completamente favorevoli alla nostra differenza».

Carol Gilligan, prima accademica ad affermare il valore della differenza di genere nell’etica, spiega con un esempio quale sia il potenziale di trasformazione che nasce dall’incontro di due culture di leadership diverse, quella maschile e quella femminile, senza che l’una debba appiattirsi sull’altra: «Un bambino e una bambina stanno negoziando il loro gioco, la bambina vorrebbe giocare a “vicini di casa”, il bambino ai pirati. Una giusta soluzione sarebbe quella di giocare ai pirati e poi ai vicini di casa per lo stesso lasso di tempo. Ma la bambina ha un’altra soluzione e suggerisce di fare il gioco in cui un vicino di casa è un pirata».

«Sono una fanatica del dubbio, mi esercito tutti i giorni, appena alzata dubito sempre almeno una buona mezz’ora», dice la Bambina filosofica di Vanna Vinci. La piccola peste dei fumetti, con la sua ironia da rompiscatole, ci viene in soccorso. Il «non so» è una cifra femminile, tanto vale farci i conti fino in fondo.

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