6 Novembre 2014
il manifesto

Il coraggio geniale

di Laura Fortini


Leg­gere l’ultimo volume della tetra­lo­gia di Elena Fer­rante, inti­to­lata Sto­ria della bam­bina per­duta (e/o, pp. 464, euro 19.50), vuol dire guar­dare l’acqua buia e opaca della fine del Nove­cento e con­si­de­rarlo esso stesso a sua volta un bam­bino per­duto. Per­ché tale appare nelle vite delle due ami­che Lila e Lenù, ami­che geniali ognuna a pro­prio modo l’una per l’altra, che arri­vano alla matu­rità e poi alla vec­chiaia dopo aver attra­ver­sato nei volumi pre­ce­denti (pub­bli­cati con­se­cu­ti­va­mente a distanza di un anno l’uno dall’altro (L’amica geniale, 2011; Sto­ria del nuovo cognome, 2012; Sto­ria di chi fugge e di chi resta, 2013; Sto­ria della bam­bina per­duta, 2014, tutti e/o), il dopo­guerra a Napoli e gli anni della demo­cra­zia cri­stiana, la camorra, l’emancipazione sociale dalla fami­glia, il matri­mo­nio, la sepa­ra­zione, la fab­brica prima e la sco­perta dell’informatica per Lila; gli studi alla Nor­male, il matri­mo­nio, la sepa­ra­zione, la car­riera di scrit­trice e il fem­mi­ni­smo per l’altra, Lenù. Ma non sono solo loro la matu­rità e la vec­chiaia cui è dedi­cato il capi­tolo con­clu­sivo del ciclo, ma sono quelle di un intero paese, inca­pace di fare i conti con la pro­pria sto­ria e con il pre­sente, che qui si rap­pre­senta come opaco e spento come mai in altre opere della contemporaneità.

Quasi fosse il Nove­cento stesso un bimbo per­duto, fermo nella sua lucente lumi­no­sità anche geniale, densa di pro­messe e di futuro: della figlia di una delle due, la bam­bina per­duta che dà titolo al libro, non si saprà mai più nulla, scom­parsa senza lasciare trac­cia se non che nella memo­ria di quanti l’hanno amata, desi­de­rata, voluta, la cui scom­parsa deva­sterà la loro vita e la pos­si­bi­lità stessa di futuro. Si attra­versa così in modo molto più pri­vato di quanto non sia acca­duto nei volumi pre­ce­denti il seque­stro Moro, il ter­ro­ri­smo, la fine del sogno della rivo­lu­zione e della pos­si­bi­lità di cam­bia­mento radi­cale dell’Italia mesco­lati alle vicende di vita delle due ami­che, a volte più lon­tane tra loro, a volte più vicine, ma sem­pre spec­chio e misura l’una per l’altra, sem­pre dis­so­nanti e però neces­sa­rie nella pre­senza e tanto più nell’assenza. Al punto che in con­clu­sione, in una vec­chiaia che per molti versi si potrebbe defi­nire tri­ste quale è quella di un’Italia inca­pace di vivere il pro­prio pre­sente pro­iet­tan­dolo nel futuro senza dimen­ti­carsi il pas­sato e ciò che si è pen­sato inten­sa­mente pos­si­bile, tutto quello che resta è pro­prio l’essere state bam­bine insieme e l’avere vis­suto il sogno di dive­nire altro, diverse da ciò in cui si era nate, con quel misto di spa­val­de­ria, corag­gio, ter­rore e inco­scienza luci­dis­sima che aveva con­trad­di­stinto entrambe.

Si tratta di un sogno che ha attra­ver­sato l’Italia tutta e delle due ten­sioni rivo­lu­zio­na­rie che sono state carne e corpo del Nove­cento, quella comu­ni­sta e quella fem­mi­ni­sta, si regi­stra qui lo scacco della prima nei per­so­naggi maschili che varia­mente le si sot­trag­gono, da quello che si sui­cida a quello che finirà in car­cere dopo anni di lati­tanza, da quello che tra­sfor­mi­sti­ca­mente approda al par­tito socia­li­sta e poi in par­la­mento nelle file del cen­tro destra; la seconda, quella fem­mi­ni­sta, richia­mata a chiare let­tere più volte, è al cen­tro il rap­porto tra le due ami­che e nella ten­sione al cam­bia­mento di entrambe. Ma Fer­rante non è super­fi­cial­mente gene­rosa né vaga­mente illu­so­ria con le sue per­so­nagge, anche se entrambe sono diver­sa­mente epi­che e Lila, la più visio­na­ria, com­bat­terà la sua bat­ta­glia di cam­bia­mento della realtà in cui è nata senza riu­scire a modi­fi­carla come avrebbe desi­de­rato e si sot­trae ad essa senza farne il bilan­cio che invece avrebbe meri­tato. Ma si tratta della sua vita e della sua carne, fatta di per­sone e di amori, di biso­gni che non rie­scono a dive­nire desi­deri, maz­zate a destra e manca per fare strada al neces­sa­rio, cui non rimane che la sot­tra­zione quando non è più pos­si­bile altro.

L’altra, Lenù, dopo aver vis­suto una vita all’insegna dell’emancipazione e della scrit­tura come mestiere, vivrà una vec­chiaia digni­tosa ma soli­ta­ria e tri­ste. Come quella delle città ita­liane che si sus­se­guono nel romanzo e con loro l’Europa senza solu­zione di con­ti­nuità, sostan­zial­mente uguali pure nelle loro realtà locali: anche Napoli, il cui sogno di cam­bia­mento diviene sim­bolo di una sta­gione poli­tica scon­fitta e delusa, di se stessa e della pro­pria illu­sione. E pro­gres­si­va­mente le date che ave­vano segnato la scan­sione del tempo nel corso dei volumi pre­ce­denti diven­tano sem­pre più pri­vate, sem­pre più intime: è ricor­dato con il giorno, il mese, l’anno il ter­re­moto del 1982, e così la nascita della terza figlia di Lenù, che inau­gura la sta­gione di una matu­rità esal­tante ma tutta all’insegna di un sé che trova nell’altra misura e pie­tra di para­gone per se stessa, come anche motivo di con­ferma per via di differenza.

Con il com­pi­mento di quest’ultimo volume Fer­rante si con­fronta con una misura della nar­ra­zione di tra­di­zione euro­pea più che ita­liana, per­ché è nella memo­ria storico-letteraria col­let­tiva la man­cata con­clu­sione del ciclo dei vinti di ver­ghiana memo­ria, che si inter­ruppe al momento di misu­rarsi con la rap­pre­sen­ta­zione della bor­ghe­sia e dell’aristocrazia ita­liana e delle loro respon­sa­bi­lità nel com­plesso pro­cesso sto­rico dell’unità d’Italia, tra­dita nelle sue pro­messe costi­tu­tive. Fer­rante invece porta a ter­mine la sua impresa — volu­ta­mente meri­dio­nale -, inter­lo­quendo sim­bo­li­ca­mente con le tetra­lo­gie di Tho­mas Mann e di Anto­nia S. Byatt.

Quella dedi­cata da Tho­mas Mann al ciclo di Giu­seppe e i suoi fra­telli è rivolta ad un pas­sato mitico da inter­ro­gare per­ché alle ori­gini di quanto stava acca­dendo in un momento sto­rico che Tho­mas Mann per­ce­piva, e i fatti gli hanno dato poi ragione, come tra­gi­ca­mente epico: la bel­lis­sima intro­du­zione che lo scrit­tore tede­sco scrisse nel 1933 si sof­ferma sul mito come discesa nel pozzo della sto­ria, per cer­carne le radici e inda­garne i que­siti. Anto­nia S. Byatt dedica la sua splen­dida tetra­lo­gia a Fre­de­rica Pot­ter e alla gene­ra­zione che crebbe nell’Inghilterra della seconda guerra mon­diale e che divenne adulta nei decenni suc­ces­sivi spe­ri­men­tando, inno­vando e eman­ci­pan­dosi dalla sto­ria pre­ce­dente con una certa feli­cità e non pochi drammi.

L’amica geniale si intrec­cia alla cro­no­lo­gia di Anto­nia S. Byatt pren­den­done il testi­mone e por­tan­dolo alle soglie dei giorni nostri, per­ché la nar­ra­zione si arre­sta ai ses­san­ta­sei anni di età delle pro­ta­go­ni­ste, con la data espli­cita del 2007 che si atte­sta nell’ultima parte.

Rispetto a quelle nar­ra­zioni Fer­rante osa la con­tem­po­ra­neità ed è impresa che non si con­clude con un sen­ti­mento di pacata con­sa­pe­vo­lezza come invece accade per Tho­mas Mann, il cui Giu­seppe rie­sce a por­tare in salvo i suoi fra­telli in Egitto e così facendo com­pie il suo destino e si affac­cia sui secoli a venire; né con la per­ce­zione di un mondo tutto aperto di fronte a sé quale è quella che con­trad­di­stin­gue l’apertura di oriz­zonte non solo in senso figu­rato della pro­ta­go­ni­sta di Anto­nia S. Byatt.

Le due ami­che geniali non aspet­tano un figlio come Fre­de­rica Pot­ter e la con­clu­sione le raf­fi­gura entrambe anziane, anzi meglio: vec­chie. Senza appa­ren­te­mente nulla più da dare l’una all’altra e al mondo intero, pro­prio come il secolo di cui sono state pro­ta­go­ni­ste e da cui non rie­scono a con­ge­darsi se non sva­nendo in un luogo indi­stinto. Vi è qual­cosa però nella con­clu­sione che sim­bo­li­ca­mente rimane tra le mani di chi legge: ovvero le bam­bole Tina e Nu da cui è ini­ziata la nar­ra­zione nel primo volume e il gesto sov­ver­sivo di corag­gio irri­dente com­piuto insieme dalle due ami­che di salire le scale del camor­ri­sta locale e chie­der­gli conto delle loro bam­bole, sfi­dan­dolo pure se bam­bine, pure se fem­mine. Gesto appa­ren­te­mente pic­colo, ma com­piuto insieme quanto ha signi­fi­cato nel corso della sto­ria per le loro vite, la pos­si­bi­lità di cam­biarle e con loro il mondo cui hanno appartenuto.

Fer­rante sem­bra sug­ge­rire che occorre ripar­tire da lì, da gesti appa­ren­te­mente pic­coli ma lumi­nosi, da com­piere insieme ad altri ed altre per poterci riap­pro­priare di quanto ci sta alle spalle e farne gri­mal­dello per il pre­sente. Osserva Lenù che la scrit­tura dovrebbe «lasciare vora­gini, costruire ponti e non finirli, costrin­gere il let­tore a fis­sare la cor­rente» ed è quello che accade in que­sto libro più che nei pre­ce­denti, per­ché «a dif­fe­renza che nei rac­conti, la vita vera, quando è pas­sata, si sporge non sulla chia­rezza ma sull’oscurità». La scrit­tura, la let­te­ra­tura, pos­sono fare que­sto, illu­mi­nare l’oscurità, per rimet­tere in gioco inven­zione, sov­ver­sione irri­dente e anche se non osiamo pen­sarlo, rivo­lu­zione a par­tire da sé e dalle donne e uomini con cui con­di­vi­diamo que­sto dif­fi­cile presente.

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