6 Settembre 2015
La lettura - Corriere

Il corpo della madre è la libertà del figlio

di suor Francesca Balocco

Sono in treno. Lo scompartimento è quasi vuoto e ne sono felice. Ho bisogno di quiete e silenzio per lasciare decantare le molte emozioni e provocazioni che la visione della mostra La Grande Madre ha suscitato e ha lasciato in me. Forse domani, o tra qualche giorno, saprò trovare una collocazione e tentare una ricomposizione dei frammenti delle immagini, dei suoni, degli odori che ancora sono presenti e vividi. Ma stasera no.

Stasera resta la sensazione di essere stata in compagnia di molte donne e di molte storie; donne dipinte, fotografate, raffigurate, rappresentate… storie di fuoco, di terra, di sangue, di lacrime e di lotta. La maternità e la femminilità sono state mostrate come provocazione e reazione in un misto di rifiuto e accoglienza, negazione e desiderio, gioia e dolore, ma soprattutto come un percorso nella verità verso una ricerca di senso e di identità; e io, corpo di donna, aggirandomi tra le sale del Palazzo Reale di Milano, sono diventata parte di questa mostra e con me gli altri visitatori – in realtà, per lo più visitatrici.

Osservando ciò che è esposto mi sono esposta, esponendomi mi sono sottoposta agli sguardi di altri. Per questo ho bisogno di stare sola. Questo pomeriggio non ho visto una mostra: ho vissuto un’esperienza; attraverso la forza evocativa dell’arte sono stata condotta in un itinerario che ha mosso sensi e sensibilità di fronte a una maternità evocata.

Lasciarsi provocare da questa presentazione ha significato per me essere gettata e lasciarmi gettare in un mondo, in un mistero, che esplode con tutta la violenza della sua ambivalenza. Storie di corpi che cambiano e si trasformano ma anche carichi di paura e di minaccia; storie di legami vitalmente interrotti e recisi, e per questo protetti o forzatamente mantenuti nei giorni, nei mesi, negli anni come nella performance di Ragnar Kjartansson o nelle opere di Louise Bourgeois, quasi per vedere se il legame si mantiene oltre la fisicità dei primi istanti.

Un itinerario verso la complicità femminile, come mostra Nicholas Nixon, o più ampiamente di complicità dell’umano, che dietro l’opera coglie l’artista e il mistero che lo anima e lo spinge a dire ciò che le parole non possono contenere, attraverso il grido fatto di immagini che sfiorano, toccano, colpiscono e feriscono l’occhio che le guarda, che lo spinge a urlare l’angoscia della ricerca di senso e di identità.

La ricerca artistica contemporanea sembra infatti essere attraversata dalla questione dell’identità e il corpo umano si presenta come lo scenario per una possibile soluzione a questa domanda. E noi, spettatori attivi e coinvolti, ci siamo trovati di fronte allo sfuggente corpo femminile, che si adatta, si riadatta, cambia in continuazione, muta, si trasforma… ma forse non è sufficiente uno specchio come nella performance di Joan Jonas per trattenerlo, o coglierne la bellezza e il mistero. E mi chiedo se la ricerca di se stessi attraverso se stessi non sia semplicemente destinata al fallimento, nel vano tentativo di oggettivare all’estremo il proprio corpo.

La faticosa ricerca della propria identità, oggi, non è data né dalla tradizione né dagli stereotipi sociali: va cercata, creata, generata, in questo è il potere generativo della donna, il suo corpo, il nostro corpo, diventa il protagonista, attraverso l’arte, di una nuova ridefinizione di sé, valorizzando la capacità di riadattarsi, di rimodellarsi, di ripetersi ma non in modo identico, di legarsi al precario e all’effimero che, colto nell’istante della rappresentazione, racconta un passato e apre a un avvenire. Ma la sensazione è di essere ancora lontana da una pacifica e armonica nuova definizione, che necessariamente passa dal rischio dell’incontro con l’altro.

Il corpo, luogo di vulnerabilità, se non rischia la ferita che l’incontro può causare, incorre nel rischio ben maggiore di una sterile chiusura su di sé; non esiste la possibilità dell’intimità con altro da sé, del piacere e del godimento se non attraversando il rischio della ferita. La sicurezza e l’imperturbabilità che il solipsismo sembra promettere si schiantano con il desiderio infinito di sentire entrando in con-tatto con un altro, il senso e l’identità che ci lega al nostro corpo rimane legato alla verità e al senso dello sfioramento e del tocco, dell’afferrabilità e delle ferite, della concretezza di un corpo. Il corpo, nostro confine, nostra de-finizione , ci costringe alla realtà come per la madre migrante di Dorothea Lange, a un qui e ora che non è un ovunque e per sempre ; ci obbliga alla decisione, ci costringe al rischio di scegliere, ci induce alla rinuncia del tutto desiderato da immaginare a favore della concretezza da vivere in un impatto che ferisce e che si offre allo stesso tempo come condizione necessaria per dare continuamente avvio, ogni volta e ogni volta più profondamente, a quel processo avviato alla nascita, che ci posiziona nella realtà.

L’incontro con l’altro ci offre la possibilità di rileggerci, non come in uno specchio che rimanda a un’immagine già finita e chiusa, ma restituendoci alla profondità di noi stessi, alla nostra vita. Le opere esposte ci offrono la possibilità di calarci dentro le storie e di rileggerci attraverso le fratture e spaccature, contraddizioni e reazioni che ci costituiscono come esseri umani in ricerca.

Siamo di fronte alla celebrazione della verità del rapporto della donna con il suo corpo, nella dissociazione, frammentazione e pressione sociale che ruotano attorno a lei. Siamo messi davanti alla sua solitudine di fronte al mistero della vita, del suo corpo percepito come spazio abitato o violato, come una forma sincera e autentica di ricerca umana, proprio attraverso i corpi destrutturati, dispersi, nella frammentazione del femminile e nella perdita dell’armonia e dell’unificazione. Attraverso questa destrutturazione siamo nel cuore del paradosso proprio perché il corpo è il luogo del simbolico, della capacità di tenere assieme elementi, storie e vite diverse.

La rappresentazione della maternità attraverso il particolare rischia lo sfiguramento, la perdita del volto come nell’opera di Alina Szapocznikow poiché il riconoscimento di sé passa dal volto di un altro essere umano: approdiamo alla nostra identità attraverso una continua uscita da noi stessi, nello stupore di un incontro. Mi riconosco quando sono riconosciuto, mi vedo quando sono guardato, imparo ad ascoltarmi quando sono ascoltato. Solo in questo riconoscimento è possibile parlare di identità, di umanizzazione, di pienezza di vita.

Le opere esposte ci pongono in mezzo a frammenti di identità in cerca di unificazione, che chiedono, in qualche modo, il coinvolgimento del visitatore: non solo ricordo, non solo passato, ma invocazione a lasciar emergere e a ritrovare nuovi significati per l’oggi. Particolari dispiegati come in Mary Kelly, scatti, elementi comuni organizzati simbolicamente come nell’installazione di Nari Ward, che non hanno la pretesa di dare informazioni ma di raccontare un frammento di storia, di rendere presente un istante percepito come vero per sé e offerto come provocazione per altri. L’immagine non si presenta come impositiva ma come propositiva, la sua portata rivelativa è affidata alla capacità dell’osservatore di fidarsi di ciò che guarda e vede, che sente e ascolta.

Cosa resta di questo intenso pomeriggio che sta decantando lentamente in un viaggio in treno? Un desiderio. Il desiderio che tutto ciò che ho visto, ascoltato, sentito sia transito e passaggio verso la disponibilità a far sì che la vita incontrata diventi storia, legame e racconto. L’esercizio del potere generativo della donna nella maternità non è questione puramente biologica: è relazione, incontro, cura nei confronti di ogni altro; esercizio del potere femminile di generare, rialzare, guarire, proteggere; potere esautorato dal dominio e dal possesso che giunge alla pienezza della libertà, nella capacità di lasciar andare coloro ai quali si è data la vita. Il desiderio di una maternità che attraversate le lotte, i conflitti possa credere in una liberazione dalla minaccia e dalla violenza ma non dal rischio e dalla fatica.

Un’immagine ritorna più volte, come nelle opere di Katharina Fritsch, Rachel Harrison, Jean-Frédéric Schnyder: la figura di una donna presentata dalla tradizione cristiana, Maria di Nazareth. La sua storia è la storia di una maternità senza violenza, capace di custodire non solo il mistero della sua vita, ma anche il mistero della vita dell’altro, una maternità segnata dalla non-comprensione, che è un altro modo di dire assenza di dominio e di possesso, una maternità carica di rischio e di novità, di frammenti che hanno trovato una loro collocazione attraverso la custodia. Maternità che diventa memoria di come il corpo umano sia degno di Dio.

Un’ultima immagine rimane in questa sera verso casa, Papilla estelar di Remedios Varo; una donna nutre la luna in gabbia con una pappa cosmica di stelle… Che nutrendoci della vastità dell’universo ciascuno di noi possa liberare la luna, da sempre simbolo di femminilità; che ciascuno di noi possa ascoltare e assumere la profonda domanda di senso presente in ogni donna e in ogni uomo, per poterci aprire alla possibilità di relazioni pienamente umane, passando dalla piacevolezza del limite inscritto nel nostro corpo.

 

(La lettura – Corriere, 6/9/2015)

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