22 Aprile 2016
il manifesto

Il destino obliquo di venire al mondo

di Alessandra Pigliaru

Si intitola L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (La Scuola, pp. 86, euro 8,50) ed è un piccolo e ragionato pamphlet pubblicato di recente da Luisa Muraro. Esplicitato nel titolo, il tema è ciò che da qualche mese a questa parte ha scatenato accese discussioni pubbliche, sfociate a tratti in polemiche anche in Italia, attraverso giornali, riviste e incontri in presenza, mantenendo tuttavia l’intenzione di lasciare apertura al confronto sui diversi posizionamenti.
Nel vasto e controverso inseguimento semantico, «utero in affitto» è l’espressione che designa una «gestazione per altri» a sfondo commerciale di cui il nodo è la surrogazione all’interno di una transazione economica che va a intaccare la relazione materna. Ciò che ci consegna Muraro non è dunque un discorso intorno alla «maternità solidale» ma a una pratica interna al mercato, con ciò che questo comporta in termini di regole e insidie.
Il dibattito pubblico italiano sembra aver avuto origine dalla presa di posizione di un imponente numero di intellettuali, donne – tra cui numerose femministe – e uomini, che in Francia hanno deciso di firmare il testo di un appello contro la pratica della surrogazione (da cui è stato poi costruito il convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata, lo scorso 2 febbraio).
Il solco scelto dall’autrice non è tuttavia quello del diritto che punterebbe a una proibizione ma sta su un altro piano. Quello per cui, come annota già nel suo L’ordine simbolico della madre (1991), «occorre dare traduzione sociale alla potenza materna per impedire alla sintesi sociale di chiudersi e tenerla invece aperta ad ogni voler dire, per quanto distante o abnorme». È in questa apertura che viene a scorgersi «la condizione della libertà». Ed è a questa altezza che si discute la riflessione per cui «non si tratta di proibire ma di non sbagliare».
Un dibattito aperto
Nonostante pratiche politiche differenti e relative collocazioni all’interno del femminismo, un po’ a tutte le latitudini in molte si sono espresse a sfavore della maternità surrogata. Pensando alle più recenti, basti il nome di Silvia Federici che dalle pagine di questo giornale (intervista a cura di Anna Curcio, 30 marzo) dice in proposito che «una cosa è il diritto delle coppie omosessuali ad avere dei figli che è una battaglia sui diritti soggettivi, altro è la surrogacy, un processo perverso che degrada la donna. Una forma peculiare di schiavitù. La mercificazione completa della vita e del corpo della donna, la sua sottrazione ed esproprio». Federici si riferisce in particolare al dibattito italiano sull’argomento, là dove si dovrebbero tenere ben distinti i piani dei diritti soggettivi e della surrogazione In una intervista per noidonne.org (a cura di Silvia Vaccaro, 28 dicembre), anche Lea Melandri chiosa sul tema definendolo «sfruttamento della capacità procreativa del corpo femminile, con l’aggravante di classe». Anche da parte di chi in questi anni ha usato grande attenzione verso le nuove forme di biolavoro globale da cui prende il titolo il volume di Melinda Cooper e Catherine Waldby (recensito qui da Cristina Morini, 4 giugno), viene dedicato spazio alla maternità surrogata – insieme allo sfruttamento del materiale biologico – facendo ulteriore distinguo con le singole materialità – pensiamo per un attimo al contesto indiano.
In questo crocicchio complesso da sintetizzare, perché muove da diverse esperienze politiche, il libro di Luisa Muraro non pensa di doverne ricostruire l’iter né di aderire ad appelli che chiudono a singole narrazione esperienziali, bensì mira preciso su alcuni elementi che in generale attengono sì alla «gestazione per altri» di carattere commerciale ma che vanno a ribadire i momenti di guadagno politico del pensiero della differenza sessuale italiano. Il punto della faccenda è quindi chiaro: «Il desiderio di suo non ha fondo e non ha limiti; alleato con la tecnica e con il mercato, si crea una dismisura temibile. Una dismisura che lo indebolisce, per finire. La prima misura che il desiderio trova, prima della giustizia o della morale, la trova nelle circostanze umane della sua realizzazione. Aiutarla con mezzi che non sono più mezzi, può capovolgersi nella morte del desiderio».
Sostituibile fino a quando
Nel suo etimo, surrogazione significa sostituzione. Nel caso della maternità surrogata non è tuttavia una supplenza temporanea, è piuttosto da considerarsi come un prendere il posto di altri e altre – o di cose secondo le fattispecie che la prevedono – a tempo indeterminato. L’etimo tuttavia ci suggerisce qualcosa che fa resistenza quando la si applica ad alcune circostanze: il suffisso «sub» oltre a indicare più in generale la sostituzione e la successione, significa «sotto». Mentre rogare significa domandare. La questione può essere interpretata in varie occorrenze, tuttavia il punto oscuro rimane il «sotto» non come un profondo che emerge bensì come qualcosa che non ha indipendenza. La domanda, il rogare, applicata alla maternità poggia – nel caso di un contratto commerciale – nella domanda/offerta imposta da un mercato. Ciò che però ancora non trova risposta è se tutto è sostituibile. E infine se tutto è disponibile, visto che «la madre è sostituibile ma non la relazione materna».
Esiste allora un’ambivalenza nel considerare «libertà» ciò di cui si dispone nella pratica della maternità surrogata, si dovrebbe invece parlare più propriamente di «autonomia», quella che «è il livello minimo richiesto da un contratto commerciale» e che, comunque sia, non consente neppure di essere titolare di un diritto visto che l’occorrenza comprenderebbe una subordinazione a un progetto di altri.
«Se diamo altro posto ancora alla tecnica e al mercato in ciò che riguarda la riproduzione degli esseri umani, mettiamo a rischio la relazione materna, da una parte, e dall’altra la ricerca di un nuovo e più ricco senso della paternità, che è iniziata con la fine del patriarcato». Affermare che si andrebbe a percorrere una strada che punta, in un prossimo futuro, all’«eliminazione della relazione materna» non significa dare a quest’ultima un carattere sacrale né rintracciare nella tecnica un pericolo fuori controllo, significa invece esporre ciò che il tragitto intrapreso dalla maternità surrogata di carattere commerciale rischia di comportare.
Madri e metafore
Tra le minacce a cui è esposta la relazione materna vi è per esempio la progettazione della sua «interruzione senza necessità», cioè tale separazione tra madre e figlio/figlia non ricade nelle contingenze umane ma viene stabilità e dettata dal tempo congruo del contratto commerciale, un tempo che ha una scadenza. D’altra parte, il pericolo è quello di innescare una retorica materna che rende «la contrattazione tra desiderio, possibilità e necessità» superflua alla singola donna, «fissando un modello di dover essere». Ciò per dire che non esiste la madre come metafora bensì esistono donne in carne e ossa che diventano madri.
Già nel suo Il lavoro della creatura piccola (2013), Muraro segnava un passaggio ulteriore rispetto L’ordine simbolico della madre.
Fatta salva la disparità nella relazione materna infatti, l’autorità simbolica e la gratitudine riconosciute a chi ci ha messe e messi al mondo, il bambino o la bambina acquista un protagonismo niente affatto scontato. La madre, scrive infatti, è «una donna qualsiasi» e «perché una donna si trasformi in madre ci vuole un lavoro simbolico, il grosso di questo lavoro simbolico, chiamiamolo così, che è un lavoro creativo, lo fa la creatura piccola, lo fa il bambino, la bambina, non lo fa lei, non lo fa la madre». Il termine «creatura», sarà appena il caso di ricordarlo, affonda le proprie radici nella cultura popolare e arriva a indicare che se la madre può stare al posto di altro e altri, la creatura piccola non solo non è sostituibile e ha la capacità di accettare chi sta al posto della madre, ma fa un lavoro grande di ricostruzione simbolica verso chi subentra alla madre e al padre. Anche in caso di separazione. In altre parole sembrerebbe che le creature piccole – che sono portate al mondo anche se non chiedono di arrivarci – facciano questo «lavoro» in un’osmosi amorosa.
Ovvero è l’amore e la gratitudine nei loro riguardi che vengono riconosciuti e che superano la mera condizione di bisognosità. Ecco perché, per diventare, per andare verso il futuro, se è necessaria e incancellabile la donna che ha procurato la nascita, è lecito pensare che altre relazioni capaci di generosità e cura simbolica materna consentano di oltrepassare la ferita di una separazione, spesso uno strappo o un’incompetenza. Nel caso delle adozioni, per esempio, davanti a una legge a dir poco lacunosa per ritardi e burocrazie varie succede che ci siano degli spazi, seppure transitori, di amore e invenzione; tacendo su ciò che capita a volte per l’affido là dove si può anche non arrivare mai all’adozione definitiva. In questo orizzonte, i bambini e le bambine, in una litania di clausole e cavilli, soffrono psichicamente e irrimediabilmente trovando chi li e le accoglie troppo tardi. La considerazione è allora che sembrano esserci strenui lavori di creature piccole che rimangono tuttavia in una curvatura destinale così poco grata, desiderata e desiderabile, da non consentire neppure un pieno passaggio verso chi sostituisce madri e padri, o chi per essi. Sarebbe forse il caso di ascoltare le esperienze direttamente da loro, dalla loro lingua di creature piccole.
La vulnerabilità dicibile
Molte narrazioni in questi mesi ci hanno consegnato una straordinaria varietà legata al desiderio di genitorialità. Al fondo delle storie non vi è solo vulnerabilità, a illuminarsi sono anche meccanismi di esclusione sociale o percorsi individuali e collettivi che raccontano di pluralità affettive già in atto. Se il meccanismo feroce neoliberista punta a far credere di potersi occupare della comune vulnerabilità per moltiplicarne il segno, stare invece in presenza della propria e altrui vulnerabilità anche là dove si toccano i paraggi dell’inermia, esserne disposte e disposti, vuol dire lasciarle scorrere mettendole in parola.
Insieme alla consapevolezza che è stato proprio grazie al femminismo che ci si è autorizzate a non avere figli e a non doversi giustificare per questo, comprendendo quindi che non vi è un diritto e neppure un dovere a essere madri ma un desiderio – senza prezzo – che non prevede la cancellazione dell’essere nati e nate da donna, si tratta di interrogare ancora la dismisura che proviene dalle relazioni e dai molteplici desideri di genitorialità, soprattutto quando travalicano schieramenti e strumentalizzazioni. Perché se il guadagno politico di civiltà, quindi per tutte e tutti, ha a che fare anche con il mancare la trappola di obbligazioni e proibizioni è plausibile che l’orizzonte da osservare e allargare implichi ulteriori parole che attengano a un senso della comune condizione umana, capace di raccontarsi come corpi sessuati – tra viventi.

(il manifesto, 22/4/2016)

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