8 Novembre 2014
www.europaquotidiano.it

Il femminismo è un campo di battaglia

Conversazione con Luisa Muraro

di Fabrizia Bagozzi

 

La lunga marcia del pensiero femminista in Italia. Una conversazione con Luisa Muraro che compare sull’ultimo numero in uscita della Rivista dell’Arel diretta da Mariantonietta Colimberti e interamente dedicato alle donne

Luisa Muraro, filosofa e scrittrice, è una delle massime esponenti del femminismo (non solo italiano), che ha contribuito a fondare e nel quale incarna quello che comunemente viene definito «il pensiero della differenza». Un filone di elaborazione che, che nella battaglia per le donne – al netto dei diritti – mette al centro la libertà, l’autonomia, la differenza femminile del vivere nel mondo e dell’agire in ogni campo: dalla politica passando per la cultura e le professioni fino ad arrivare al quotidiano più spicciolo. Una differenza femminile da tradurre in mainstream o per lo meno da far giocare con quello maschile, il cui pensiero e la cui visione del mondo sono ancora egemonici nella società.

Il suo è il percorso di una vita. Veneta, classe 1940, Muraro incappa nel movimento – e diviene una delle protagoniste di quello delle donne – alla fine degli anni ’60, all’Università Cattolica di Milano dove ha studiato laureandosi in filosofia della scienza e dove si era avviata alla carriera universitaria.

Da lì in poi vissuto e pensiero, “teoria e azione”, sono un tutt’uno. La nascita e l’evolversi del femminismo la vede in prima fila: combattente, come lei stessa ha avuto modo di definirsi nel suo modo di vivere – non solo agli albori – il movimento delle donne.

Promuove e anima i neogruppi di autocoscienza, sostiene e teorizza il dire e il dirsi delle donne, nel 1975 fonda insieme a Lia Cigarini quella che poi diventerà uno dei luoghi di riferimento del femminismo italiano, la Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it). Con un gruppo di filosofe dà vita alla comunità filosofica femminile Diotima.

Nel tempo scrive diversi testi ritenuti fondamentali per il pensiero femminile, a partire da quello, collettivo, firmato proprio dalla Libreria delle donne di Milano nel 1987, Non credere di avere diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg e Sellier. Una delle sue fatiche, anche se non l’ultima, è Non è da tutti, l’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011: insieme un bilancio e un manifesto di decenni di militanza, studi filosofici, incontri con pensatrici di diverso orientamento nella Libreria delle donne e in Diotima.

Lei ha sostenuto che, quando lo incontrò, contribuendo a fondarlo, il suo era un femminismo «molto combattivo». Come avvenne questo incontro sul piano vissuto personale, com’è che incendiò in lei la fiamma del combattimento?

La parola “femminismo” ha origine in quella famiglia di parole in –ismo che tanto piacevano alla cultura francese dell’Ottocento per etichettare le idee e le posizioni, trattate come farfalle da infilzare e fissare. D’altra parte, io non sono femminista secondo il significato corrente. E allora? Ho accettato la parola e il nome per stare in un campo di battaglia dove si lotta anche intorno al significato delle parole.

Nella mia storia e di altre, non tutte, fu decisiva la partecipazione al movimento del Sessantotto, in positivo («ci possiamo ribellare») ma anche in negativo: c’era qualcosa di essenziale che restava muta, il mio stesso essere una donna. Questo qualcosa entrava ogni tanto in gioco, ma era in forme non libere, per esempio, nella cosiddetta liberazione sessuale praticata al maschile. Il maschile come valore dominante è il titolo di uno dei primissimi documenti del femminismo in Italia, pubblicato nel 1969 sulla rivista Il manifesto.

Per me fu decisivo anche un altro fatto, scoprire che il pensiero femminista della “seconda ondata”, che comincia allora, fine degli anni Sessanta, era una miniera di idee nuove, e io questo cercavo fin da giovanissima per realizzarmi, avere qualcosa da pensare e da trasformare in parola pubblica.

Quando tutto ebbe inizio che cosa innescò la riflessione? Che cosa la spinse-vi spinse (con Lia Cigarini e altre compagne di strada, magari mai conosciute ma decisive, come Carla Lonzi) a produrre ragionamento pubblico – “politica” – e dunque a produrre potentemente massa critica?

Gli inizi dei grandi movimenti storici, spesso sono piccoli e oscuri. Il movimento di cui parliamo, si racconta che ebbe inizio negli Usa, anno 1966, quando un gruppo di studentesse lasciò un’assemblea sulla “questione femminile”, alla quale assistevano mute (erano l’oggetto del discorso!) per riunirsi altrove tra loro. Sarebbe così nato il primo gruppo separato di presa di coscienza e di parola da parte di donne. Sicuramente fu questo il modello più seguito, anche in Italia: donne, più o meno giovani, che si separavano da gruppi e associazioni miste per costituire piccoli gruppi di autocoscienza.

Lo facevano non per rivendicare lavoro, diritti e parità, che erano gli obiettivi di battaglie in corso, sostenute da alcuni partiti e dalle associazioni femminili. La nostra rivolta era contro il modello dell’emancipazione e contro la cultura politica, anche di sinistra, che faceva delle donne una questione di giustizia sociale, rovesciando l’ordine delle cose, perché il vero problema, ieri come oggi, è la prevaricazione maschile mediata dalla civiltà stessa, ivi compresi gli istituti di una società democratica.

Che così fosse (e così sia, ma da allora a oggi con più consapevolezza) lo rese evidente Processo per stupro di Loredana Rotondo, un docufilm trasmesso da Raidue il 26 aprile 1979.

Vi accusarono di essere privilegiate e minoritarie…

Sì, ci imputavano di appartenere a una minoranza privilegiata, ma la semplicità dei modi (uscire dall’isolamento reciproco per incontrarci in luoghi familiari dove parlare della nostra esperienza) e la radicalità dell’idea (il problema non siamo noi, sono gli uomini) aprì una strada anche a quelle donne non emancipate che avevano tutte le ragioni per reclamare dei cambiamenti nelle loro vite, specialmente nella vita familiare, limitate com’erano dagli imperativi della cultura patriarcale. E che, invece di aspettare e intanto sopportare, hanno cominciato a volere più libertà. Che è già un atto di libertà, a monte di un eventuale processo di liberazione, come insegna Hannah Arendt.

Per il femminismo si è parlato giustamente di liberazione; bisognerebbe precisare che si tratta della liberazione di corpi vivi e della loro capacità di desiderare, rispetto a condizioni e condizionamenti che ammettevano quest’ultima ma dentro margini troppo ristretti. La politica del desiderio è il titolo di un dvd prodotto nel 2010 da L’Altravista e Libreria delle donne, regia di Vigorita e Cardini, con l’ambizione di raccontare gli inizi e alcuni sviluppi della rivoluzione femminista. Altri film sono stati fatti con un intento simile, il più conosciuto è Il pane e le rose di Alina Marazzi.

Tutto troppo bello? No, furono anni con un insolitamente alto tasso di felicità femminile. Dirlo e farlo sapere, serve a tenere alte le aspettative per il futuro.

Ma c’è stato anche un prima. Il vostro fu un femminismo della “seconda ondata”. In precedenza molto fecero altre donne protagoniste di una diversa idea della condizione femminile nella società. Prima della Resistenza e dopo la Resistenza, che fu centrale perché le donne italiane vi hanno giocato un ruolo determinante. Un ruolo tale da non poter essere che riconosciuto quando, in sede politica, si dovette discutere giustappunto di diritti, a partire da quello al voto. Cosa ha significato tutto questo, fin dove portò?

Il richiamo al prima è molto importante. Si parla di un “femminismo della seconda ondata” rispetto all’ondata del sec. XIX, che fu per i diritti delle donne. L’Italia non ha conosciuto un movimento comparabile a quello anglosassone delle suffragette, ma ci sono state grandi figure, come la mazziniana Anna Maria Mozzoni, come Ersilia Maino, Laura Solera Mantegazza e altre che danno vita all’Unione femminile, tutt’ora attiva. L’epicentro di quel femminismo è tradizionalmente Milano, senza però ignorare altre città e regioni, da Torino a Palermo.

Ma, nella storia d’Italia, c’è anche un prima più vicino ed è a questo a cui lei fa riferimento. L’Italia uscita dalla Resistenza e orientata da una nuova Costituzione, ha conosciuto cambiamenti positivi anche per quel che riguarda la condizione femminile, grazie all’impegno di alcuni partiti, delle associazioni femminili e di alcune notevoli personalità. Oltre che a Nilde Iotti, pensiamo a Lina Merlin, Teresa Noce, Tina Anselmi, Giglia Tedesco, Franca Falcucci. Da qui è venuta una legislazione progressista negli ambiti che più interessano le donne, culminante nella riforma del diritto di famiglia del 1975.

Un processo che trasformò profondamente la società italiana ed ebbe come motore le donne.

Guai a sottovalutare i decenni che hanno portato agli anni Sessanta. Ma attenzione a non istituire una continuità, non capiremmo il frangente da cui si alzò l’ondata femminista. Non ci fu uno scontro, ma un urtarsi d’impostazioni non accordabili, che è quello che capita nei frangenti veri e propri, un urtarsi di grandi forze che si traducono in un’ondata verso l’alto. Ne darò una descrizione con parole giuste, spero, ma anche ingiuste, temo, nei confronti di donne che hanno meritato molto.

Dunque Tina Anselmi, Lina Merlin, Franca Falcucci fecero bene. Ma…?

Le donne impegnate a cambiare la società italiana in un senso favorevole all’umanità femminile, agivano con gli strumenti della democrazia rappresentativa previsti dalla Costituzione, senza dimenticare l’opera di educazione delle masse. Non ignoravano certi limiti della democrazia rappresentativa, ma non arrivarono alla radice della diffusa estraneità femminile verso la politica. Sapevano che ci sono disuguaglianze da combattere, ma, dietro l’apparente neutralità degli istituti democratici, non riconobbero la prevalenza del maschile. Eppure ne avevano esperienza, basta pensare a quello che sopportò Lina Merlin nella sua lotta per mettere fine alla prostituzione di Stato, o alle partigiane rimaste fuori dalla porta delle nuove formazioni politiche.

Insomma: determinate contro le diseguaglianze, ma senza mettere in discussione un sistema di regole e un’impostazione culturale stabilite dagli uomini…

A tutte quelle che volevano esserci nella sfera pubblica, la cultura dell’emancipazione insegnava a resistere alla prevaricazione maschile, ma non a riconoscere la sua natura politica, ossia l’esercizio di un dominio vero e proprio. Si ponevano obiettivi importanti, erano combattive e preparate, ma dalla propria intima esperienza non sapevano ricavare un sapere politico. Si subordinavano alla realizzazione dei programmi, alle esigenze delle organizzazioni, agli ordinamenti vigenti, e non davano sostegno alle poche ribelli. In questo modo, inconsapevolmente, non facevano che riprodurre il principio stesso della condizione che volevano cambiare, cioè il disvalore dell’esperienza femminile per se stessa. Ed è proprio questo che, a un certo punto, risultò evidente.

Quale fu la discontinuità che produsse il frangente?

In contrasto con quel tipo di politica, scartando però anche i movimenti del Sessantotto, non meno maschilisti dei partiti e del parlamento, il movimento delle donne sviluppò la politica del piccolo gruppo di parola e di ascolto fra donne, che dilagò per puro contagio, senza organizzazione. In tutto cercavamo mediazioni femminili. «Tra me e il mondo un’altra donna», dicevamo. Cominciò a farsi una rete di rapporti, con amori e amicizie. Si viaggiava per incontrare altre. Si leggeva moltissimo e si scriveva. Ci si parlava in un linguaggio apparentemente impolitico, senza obiettivi, dotato di una logica (mi pare di poterla chiamare così) il cui principio resta in vigore: è il partire da sé. Non dagli ideali, non dalle norme, non dagli interessi generali, non dagli obiettivi, ma dal vissuto e sentito, per non subordinarsi a interessi e vedute altrui.

Si formò così una “lingua delle donne” che consentiva di parlarsi a grandi distanze, da un continente all’altro. Queste pratiche ed esperienze ci trasformarono sensibilmente e rivoluzionarono il nostro rapporto con il mondo. Scoprimmo così in noi una competenza sulla realtà (il corpo, la salute, la religione, la morale, l’arte…) fino allora misconosciuta e non coltivata. Si sono aperte librerie, centri di documentazione, teatri e centri d’arte, si sono fatti convegni, memorabile quello di Paestum nel dicembre 1976, sono nate associazioni di storiche, di teologhe, filosofe, letterate. E tutto questo quasi senza soldi, sempre passando per relazioni dirette e lavoro volontario.

Partire da sé: nasceva un nuovo linguaggio. Ma in molti puntavano il dito: parlate solo di voi, parlate solo fra voi…

Credo che dall’esterno la nostra mobilitazione potesse sembrare il trionfo del soggettivismo. Ricordo un’accusa: siete autoreferenziali. Era un mondo che nasceva e non era quello degli uomini. Eravamo ormai altrove rispetto a quel tipo di società e di politica. Tutto bene? No. Senza discolparmi su altro, personalmente mi rimprovero di non essermi dedicata subito alla traduzione della nostra “lingua” nei linguaggi più comuni o riconosciuti. Non dimentichiamo tuttavia che le difficoltà della comunicazione erano accresciuta dal disinteresse della politica ufficiale per i movimenti e dalla dose non piccola di (inconsapevole?) maschilismo dei media. Ci sono stati però uomini che hanno capito e appoggiato, e donne che ci hanno dato ottimi esempi: penso con riconoscenza al lavoro giornalistico di Natalia Aspesi e alla mostra di Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia (1980).

Il movimento femminista. Quale fu il percorso, e fin dove ha portato: qual’è la soglia su cui ci si è attestate?

La continuità fra l’ondata femminista e il suo prima è apparente e proviene dal “femminismo di Stato”, ossia dalla risposta che le forze politiche progressiste cercarono di dare alla rivolta delle donne. La risposta è consistita nel riaprire il dossier del femminismo ottocentesco degli uguali diritti delle donne, con lo scopo di dargli quella piena realizzazione che, in effetti, non aveva ancora avuto. Questa è, sostanzialmente, la linea di condotta che promuovono ancor oggi l’Onu e l’Unione Europea e che ha scelto per sé anche una parte del movimento femminista, specialmente nell’Europa del nord.

Si è fatta così confusione. Per fare solo un esempio, si crede da molti che l’uso del genere grammaticale maschile anche per cariche e titoli di donne, sia stato sostenuto dalle femministe. É vero il contrario: “donna è bello”, è un tipico slogan femminista, ed è bello anche il genere grammaticale femminile.

“Femminismo di stato”, femminismo autonomo. C’è un’interazione possibile?

In parecchi casi, si è creata anche una sinergia tra le due forme di femminismo, quello promosso da agenzie politiche ufficiali e quello del movimento vero e proprio. Quest’ultimo, per distinguersi, da allora ha cominciato a chiamarsi femminismo radicale, oppure femminismo autonomo, oppure femminismo della differenza… La Libreria delle donne di Milano, per fare un esempio, è un luogo tra i più noti del femminismo autonomo, mentre la Casa internazionale delle donne di Roma incarna una sinergia (tra femminismo autonomo e il Comune di Roma). Questo vale anche per la Biblioteca e Centro di documentazione delle donne di Bologna. La comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona, nata negli anni Ottanta, nasce dal femminismo autonomo ma agisce nel contesto di un’istituzione accademica che l’ha semplicemente accettata.

Per contro, i cosiddetti Women’s Studies (ideati negli Usa), sono femminismo autonomo che ha accettato d’integrarsi nelle università, alle loro condizioni. Il movimento femminista nell’Europa del nord sembra essere stato conquistato dal “femminismo di Stato”. Mi è capitato di ascoltare una femminista norvegese secondo cui lo Stato dovrebbe legiferare per imporre alla Chiesa cattolica di ammettere le donne al sacerdozio.

Quali sono i limiti che imputa al “femminismo di stato”?

Pur ammettendo la possibilità della sinergia, una come me diffida dal “femminismo di Stato”, che promuove la parità delle donne con gli uomini come se questi fossero il metro di misura, giudica più dai numeri che dall’esperienza soggettivi e agisce con mezzi esteriori. E che, per giunta, occupa spazio sui media a spese del movimento autonomo, obliterando le sue caratteristiche originali. “Obliterare” significa, letteralmente, deformare la lettera di un testo rendendolo illeggibile.

Nel pensiero delle donne, nella battaglia per le donne oggi gli orientamenti sono molti. Che idea si è fatta in proposito, secondo lei si può parlare di “femminismi”?

Per leggere quello che oggi accade di riconducibile al femminismo, io suggerisco di mettere da parte la figura di una lunga marcia. Questa figura può andare bene per la storia delle donne in Occidente dalla fine del Settecento. Quanto al femminismo, suggerisco di vederlo piuttosto come un campo di battaglia. Propongo cioè la visione di una pluralità non pacifica né concorde di fatti e idee, senza margini definiti. Il campo di battaglia del femminismo si sposta, si complica, arriva a comprendere cose fra loro distanti, come la composizione del governo, le parole e le decisioni del papa, la costituzione dell’Europa, i cambiamenti nel mondo arabo-islamico…Nel mio studio, davanti a me, tengo un quadro della serie delle Battaglie di Anghiari dell’artista Vittoria Chierici. Con i disegni lasciati da Leonardo, l’artista ha composto molte versioni di una scena di battaglia al cui centro c’è un episodio storico preciso, lo scontro per lo stendardo. Che cosa c’è scritto sullo stendardo? La risposta non è unica.

Nel campo del femminismo ci sono più letture di ciò che accade e alcune suggeriscono di parlare di femminismi, al plurale. A me questo plurale sembra smorzare la forza di un nome che è in se stesso una sfida. Lo abbiamo visto con il recente discorso all’Onu di Emma Watson, donna giovane e famosa la quale, dovendo perorare i diritti della donne, cosa scontata, a un certo punto ha parlato del suo femminismo, suscitando un’enorme sorpresa. Fra i giornalisti qualcuno ha tentato di sostenere che questo sarebbe un “nuovo” femminismo, ben diverso dal “vecchio”. Ridicolo.

Da sempre il corpo delle donne è un tema centrale per il femminismo. Ben prima e ben dopo Berlusconi, contro la cui – diciamo così – estetica femminile si è efficacemente mobilitata la piazza di Se non ora quando (non ancora divisa in due) il 13 febbraio 2011. Nel movimento femminista non si smette di discutere del corpo delle donne. Oggi, soprattutto, e piuttosto vivacemente, sulla legittimità (e addirittura sulla rivendicazione) del per così dire “uso consapevole”, anche in politica. Qual’è il suo punto di vista?

Il corpo delle donne c’entra sempre nella storia umana, siamo tutti nati da donna. Ed è naturalmente al centro del femminismo. Noi e il nostro corpo s’intitola un libro collettivo del 1971, opera del Boston Collective, che ebbe un successo mondiale, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Vi si parla del corpo femminile con competenza, franchezza e dignità. Oggi le studentesse abitano con agio i luoghi della cultura superiore rendendoli più vivi. Più lentamente e con meno slancio, anche la scena pubblica si sta popolando di corpi femminili e perde il suo grigiore monosessuato.

Ma c’è l’altro risvolto del cambiamento in corso. Il corpo delle donne è preso dentro a tutto quello che le civiltà patriarcali in via di disfacimento non riescono più a regolamentare o a controllare, dalla maternità alla violenza maschile. La famosa Legge del padre, per quanto imputabile di grave ingiustizia verso le donne, è stata pur sempre un principio di ordine simbolico. Oggi, in bene e in male, i modi tradizionali di tenere in rapporto i corpi femminili con gli interessi e i desideri maschili, non funzionano più. Il film, poi libro, di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, illustra questo stato di disordine fattosi spettacolo televisivo.

Il nostro è un tempo di cambio di civiltà in cui agiscono anche fattori positivi, in primis il desiderio di libertà delle donne e una certa volontà maschile di voltare pagina, che tra gli uomini giovani a volte sembra cosa fatta.

Lei mi chiede di esprimere un giudizio sull’uso che una donna può fare consapevolmente del suo corpo per scopi di seduzione o altri scopi, decisi da lei stessa. Perché no? La bellezza del corpo è come l’intelligenza e altre doti, che, amministrate bene, aiutano a vivere meglio. E la moralità di simili comportamenti? Il mio impegno politico obbedisce a un criterio: che ci sia libertà femminile. Criterio semplice, che però non deve tradursi nel semplicismo. Quando ci sono di mezzo i soldi, per esempio, c’è una minaccia alla libertà e i fatti lo confermano pesantemente per quello che riguarda la prostituzione.

Per evitare indebite semplificazioni, teniamo presente che le regole in vigore non sono adeguate al gioco della libertà. Sono quelle di un mercato che mercifica praticamente tutto; quelle della cultura dello spettacolo che usa e getta; quelle della competizione generalizzata che ostacola amore e amicizia… Ignorarle sarebbe sconsiderato ma se una donna vi si conforma, diventa strumento di progetti altrui e, per se stessa, insignificante. Se una cerca di autorealizzarsi, occorre che abbia un qualche progetto personale di vita e sappia trovare delle strategie, secondo le circostanze, le proprie aspirazioni e i propri mezzi. Non c’è più un destino femminile. Il che non toglie che ci sia, ancora e sempre, la possibilità di catastrofiche traiettorie esistenziali.

Il criterio dunque è la libertà femminile. Purché ci sia davvero. Una che ha ragionato con finezza sulle regole adeguate al gioco della libertà femminile, in tempi in cui questa era scarsa, è la romanziera inglese Jane Austen. Ha scritto Sei romanzi perfetti, per usare il titolo di un saggio pubblicato proprio quest’anno dal Saggiatore, autrice Liliana Rampello la quale dimostra come, a distanza di due secoli, la scrittrice inglese, oltre che un vertice nell’arte del romanzo, sia una maestra di vita. La vecchia cultura ha fatto passare Jane Austen per una scrittrice edificante per signorine, il cinema per contro le ha reso ripetuti omaggi e la migliore cultura femminista la propone ai livelli alti del pensare, una da cui farsi istruire nel gioco della libertà.

La libertà, dilemma fondamentale. Per essere liberi serve una bussola, scrive Zigmunt Bauman. Lei ha detto: «La libertà femminile è una sfida per il tradizionale rapporto fra i sessi e trova gli uomini impreparati, ma in certa misura anche le donne». Le chiedo: la libertà delle donne è così tanto culturalmente disorientante da spingere a volte gli uomini fino a forme di violenza estrema? E ancora: quale può essere la bussola?

C’è una mirabile bussola della libertà, che è l’amore. Simone Weil ha scritto, nei primi anni Quaranta, parlando di ciò che stava accadendo all’Europa: «L’umanità è diventata folle a forza di mancanza d’amore». In polemica con altre, io sostengo che non bisogna pensare che si tratti di una bussola inservibile. Bisogna aggiornarla (uso questa parola con il significato forte che le dava papa Roncalli). Però capisco le ragioni di quelle che obiettano alla mia posizione.

In breve, molto in breve: nella condizione ingiusta fatta alle donne e nella ferita fatta all’intera umanità con questa ingiustizia, anch’io vedo la sconfitta di una civiltà sensibile all’orientamento dell’amore, e temo che sia irrimediabile. Non so se una simile civiltà sia mai esistita o se si possa dire che esiste come qualcosa di sotteso alle culture umane, qualcosa che le sostiene. Le tracce ci sono e sono molte, nonostante tutto. A scuola abbiamo letto Dante e non abbiamo dimenticato gli ultimi versi del suo capolavoro. Io suggerisco la seconda impostazione e mi chiedo: la domanda di giustizia e la ricerca di libertà che in questi decenni, in tanti modi, insistono a venire da parte delle donne, insieme alla buona volontà di quegli uomini che vogliono voltare pagina, sono abbastanza forti da non cedere alla macchina del potere che tende a prendere il posto della politica? Nel campo di battaglia di cui parlavo prima, si combatte intorno a questo.

La citazione di Weil viene da un breve scritto che s’intitola Stiamo lottando per la giustizia? che fa una luce incomparabile sui rapporti tra amore, libertà e giustizia. Simone Weil, oggi fra le autrici più care al pensiero femminista specialmente in Italia, sembra avere scarsa attenzione alla condizione femminile, eppure l’ha presente e ne fa sapeva, tant’è che, ragionando sul consenso dell’altro come condizione della giustizia, scrive: «Lo stupro è l’atroce caricatura di un amore in cui il consenso è assente». Dopo lo stupro, aggiunge, l’oppressione è la seconda situazione orribile dell’esistenza umana. La condizione fatta alle donne dava ai suoi occhi la misura della generale distanza da quello che è buono e giusto.

 

(www.europaquotidiano.it, 8 novembre 2014)

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