Scusate l’orrendo neologismo ma sono un’a-facebookiano. Il mio utente Twitter è al servizio di un progetto sindacale collettivo e uso WhatsApp con cautela e cercando di non esagerare: non sono quindi un amante dei social network.
Frequento però con curiosità, pur se saltuariamente, il gruppo pubblico di discussione della Libreria delle donne di Milano; qui negli ultimi tempi mi sono imbattuto in una discussione sull’opportunità di una presenza maschile nei vari luoghi, virtuali e reali, della Libreria stessa e in generale del femminismo.
Una delle partecipanti alla discussione, Marina Terragni, negava con ardore la necessità di tale presenza. Prima mia reazione: fastidio. Ma oltre il fastidio cosa c’è? Leggo e rileggo i post di Terragni e la discussione che si sviluppa. Non per intervenire: proprio per le ragioni da lei esposte, non mi spetta, non sono autorizzato a entrare in una discussione che vuole essere solo tra donne.
E se Terragni avesse ragione? Se fosse vero, come lei sostiene, che: “Siamo sommerse dal fragore violento di quella differenza [maschile], da sempre”? Che cosa potrei fare io per diminuire il fracasso che generiamo?
Non posso d’altronde mettere in secondo piano il desiderio che esprimono alcune donne della Libreria, cui riconosco autorità femminile e con cui sono in relazione da anni, di un confronto in presenza, negli stessi luoghi del femminismo e in particolare in Libreria. Se queste donne valutassero un domani un venir meno a questo loro desiderio di relazione in questi luoghi, proprio per l’autorità che a loro riconosco, non avrei remore a farmi da parte.
Dilemma insolubile: come esserci senza esserci o almeno con meno “fragore”?
Per provare a darmi una risposta e per tentare di compiere e proporre un piccolo spostamento simbolico prendendo spunto da un pensatore francese: Maurice Blanchot.
Una parte non marginale della riflessione del filosofo francese s’inscrive in quel filone di pensiero novecentesco, inaugurato da S. Weil, della critica del concetto di persona fino arrivare, nell’elaborazione della pensatrice francese e in altre successive, a quello d’impersonale. Vorrei qui soffermarmi sull’esito politico che è stato dato a questa riflessione.
Blanchot cercò di individuare un linguaggio pubblico assonante e conseguente a una filosofia dell’impersonale; la conseguenza pratica (e programmatica) più evidente fu la cancellazione del proprio nome a favore di un’attività politica anonima e impersonale che, con assonanze weiliane, “parli a favore di chi non può parlare”.
Una proposta che mi sento di declinare e reinterpretare non nel senso di un anonimato quanto nella direzione di una diminuzione dell’io (anche questo tema weiliano), dell’individualità e della soggettività in direzione di una singolarità, che di contro alla neutralità e all’universalità del pensiero patriarcale, sia sessuata.
In questo risiede la mia proposta: il firmare questo intervento in modo impersonale ma connotato dalla differenza sessuale, da una differenza sessuale maschile.
Una singolarità maschile
(www.libreriadelledonne.it, 22/7/2017)