21 Giugno 2016
il manifesto

Il genere obbliga a riumanizzare la natura

di Ivan Cavicchi

 

A Milano, Libreria delle donne il 15 giugno. Tutte le poltrone sono occupate. Sara Gandini, epidemiologa che lavora allo IEO, introduce e spara una quantità di temi. Ma il denominatore comune è medicina, differenza, genere, complessità.

Mi passa la parola e pongo un quesito secco: basta fare farmaci per le donne per risolvere la questione della medicina di genere?

I farmaci ovviamente non vanno disprezzati (anche le donne hanno diritto all’appropriatezza terapeutica), ma il rapporto genere/medicina pone ben altre sfide. La nostra è senz’altro una medicina biologicamente al maschile. Ma in che modo?

Sicuramente lo è sul piano clinico sperimentale dove si accetta la transitività dei risultati tra i topi di laboratorio e l’uomo sulla base di due postulati:

  1. la “sub-stanzia” tra gli essere viventi è comune, cambia solo il suo grado di analogia e complessità
  2. in ragione del principio della “sub-stanzia” comune le differenze di genere che pur esistono tra uomo e donna sono annullate. Così tale “sub-stanzia” cioè quella “che sta sotto” la malattia, è come se fosse considerata una natura di genere neutro, cioè una cosa inanimata e dis-umana.

Uno dei più grandi limiti delle medical humanities è proprio quello di non aver compreso che in medicina nessuna vera riumanizzazione sarà possibile se prima non si riumanizzerà la “sub-stanzia” cioè l’idea di natura cosale della malattia. Non ha senso essere umani nei confronti di un oggetto, cioè conoscere come umano qualcosa che non lo sia. Si tratta quindi di emancipare la concezione della malattia dal genere neutro al genere umano e di differenziare il genere umano in genere maschile e femminile. Ri-generazione del genere e differenziazione del genere sono la stessa cosa.

Il discorso della medicina di genere quindi non è rivoluzionario solo perché introduce l’idea della differenza biologica ma lo è perché obbliga a riumanizzare la vecchia idea di natura come cosa.

Che senso ha riconoscere la differenza di genere e restare una cosa? La “sub-stanzia” è una “cosa” certamente ma con una storia, con una soggettività, dei contesti, con delle specificità, con delle differenze. Cioè è un “quasi oggetto” e un “quasi soggetto”. Dove il “quasi” sta ad indicare la difficoltà della lingua ad esprimere una realtà molto più complessa di quella di cui sino ad ora si è parlato.

La medicina di genere, farmaci a parte, pone quindi due sfide: la singolarità e la relazione. La singolarità espone le verità scientifiche della medicina ad essere tutte relativamente falsificate, cioè obbliga le evidenze scientifiche a fare i conti con il valore euristico della differenza.

Ciò mette in crisi i ragionamenti induttivi, cioè le generalizzazioni, e obbliga il medico alla deduzione caso per caso, singolarità per singolarità e quindi ad essere più bravo, cioè a navigare a vista.

Tutto questo complica la vita ai “lineaguidari”, cioè ai fanatici della procedura, e mette in crisi qualsiasi forma di scientismo. In sintesi la medicina di genere ci impone un ripensamento del metodo di conoscenza dal momento che è come si conosce che rende vero ciò che si conosce.

La relazione per forza è una sfida, perché, altro limite delle medical humanities è quello di teorizzare una deontologia comportamentale a “sub-stanzia” (ontologia) invariante.

Non si possono avere vere relazioni con dei malati-cosa. Si possono avere relazioni solo se le cose sono ri-generate in esseri umani. La relazione quindi è l’unico modo che abbiamo per conoscere l’essere e si basa sull’incontro dei saperi del malato con i saperi del medico (doxa/episteme).

E infine la terza sfida.

È Laura Colombo, esperta di informatica, che ce la pone con una domanda: se non siamo cose in una malattia quali rapporti tra senso e significato? La medicina di genere è l’incontro tra i significati scientifici con il senso che le persone attribuiscono alle loro malattie. Essa si trova esattamente tra senso e significato e la vera relazione altro non è se non il loro incontro.

In quella libreria speciale tutti gli interventi sono iniziati raccontando esperienze personali di malattia cioè raccontando spesso lo scontro tra senso e significato. Avevo avuto la mia risposta: i farmaci non bastano a fare la medicina di genere.


(il manifesto, 21 giugno 2016)

 

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