25 Aprile 2021
#VD3

Il massimo di autorità con il minimo di potere – Vita Cosentino


Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 La politica delle donne è politica, 18 aprile 2021


di Vita Cosentino


A dire la verità, io per tutta la vita mi sono tenuta alla larga dalla politica istituzionale, anche quando mi è capitato di ricevere offerte al riguardo. La sentivo respingente per la macchinosità, le forme codificate fin nel linguaggio, i rituali… Neppure amavo seguirla sui giornali, annoiata dal continuo teatro monosex. Solo da poco si è risvegliato in me un interesse a seguirla, da quando, soprattutto sulla scena internazionale, sono comparse ai massimi vertici donne che sembrano puntare più sull’autorità che sul potere.

È un cambiamento inaspettato che apre a molte questioni da interrogare e approfondire sul piano teorico e politico, e che ripropone pressantemente un’interlocuzione con gli uomini: siamo, infatti, in una transizione di civiltà in cui tutto si muove e si evolve rapidamente.

Gli elementi in gioco sono: la politica, il potere, l’autorità. È necessario riprenderli in mano e distinguerli, uscire dalle identificazioni e dalle confusioni, per trovare altre combinazioni possibili che aprano a effetti di libertà e non di dominio.

Per quella mia sensazione respingente ho trovato una spiegazione nelle parole di Diana Sartori quando argomenta che con la modernità si è affermata una visione artificiale della politica e intende con questo lo Stato come macchina artificiale, regolata da tecniche di potere. Maschile. Citando Hannah Arendt, Sartori dice che la quintessenza della condizione umana è la terra, la nostra natura terrestre, ed è la negazione di questa condizione, il desiderio di “evadere dalla prigione terrestre” che porta a sostituirla con qualcosa di “artificiale”, perché così, essendo fatta da noi umani, è più controllabile e dominabile.  Questa è per Diana Sartori, in Indizi terrestri, la matrice di quel modo di pensare la politica e il potere identificandoli e riducendo sia l’una che l’altro alla logica mezzi-fini dell’agire strumentale e del dominio.

Mi sembra che oggi l’identificazione tra politica e potere sia diventata un campo di battaglia, la cui posta in gioco è quella di sciogliersi da un abbraccio mortifero per andare verso qualcos’altro che è tutto da costruire. Per lo meno a considerare le vicende del più grande partito del centro sinistra italiano che su questa questione ha visto prima le dimissioni del segretario che “si vergognava del suo partito che da 20 giorni si occupava solo di poltrone”; e poi il discorso di apertura del nuovo segretario che ha affermato: “se diventiamo il partito del potere moriamo”, e ha chiesto di diventare un partito aperto.

Quanto sia mortifero esaurire la politica nella lotta per il potere e la distribuzione delle cariche è questione che riguarda – o almeno dovrebbe riguardare – anche le donne di quel partito. Nel dibattito seguito alla mancanza di ministre PD nel governo Draghi, da più parti sono infatti arrivate critiche che riguardavano proprio l’avere “la stessa vocazione governista tipica dei maschi” (Gad Lerner, Le lacrime delle donne PD, “il Fatto Quotidiano”, 17 Febbraio 2021 ) oppure lo stare “aggrappate come ostriche” alle correnti. (Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi, Una rivolta già (troppo) vista, “DeA | Donne e Altri”, 19 Febbraio 2021 ). Anche nello scontro successivo tra Debora Serracchiani e Marianna Madia per il ruolo di Capogruppo alla Camera, si è riproposta la questione, e in modo ancora più grave, se accettiamo la lettura di Nadia Urbinati che vede le donne diventare “segnaposti” delle fazioni guidate da uomini (La faida Madia-Serracchiani ci dice poco sulle donne ma molto su cos’è il PD, “Domani”, 29 marzo 2021 – ).

La domanda da porci e da porre alle donne che vogliono giocarsi su quel terreno è: perché accontentarsi di fare le replicanti dei politici maschi quando a portata di mano c’è la scommessa più grande di aprire strade fino a ieri impensate in quei territori? Di cambiare l’idea stessa di politica e di potere? E subito dopo chiederci: come rendere praticabile questa scommessa?

Intrecciata con questa, l’altra questione che attraversa la vita associata è quella dell’autorità, o meglio della sua mancanza e della sua confusione con il potere. Hannah Arendt dice che l’autorità è “scomparsa dal mondo moderno” e in effetti vari intellettuali che oggi parlano della sua crisi continuano a pensarla solo intrecciata con il potere. Marramao, per esempio, ha fatto come diagnosi del presente “La ‘crisi di autorità’ di una élite che, incapace di essere ‘dirigente’, si è ormai ridotta a pura dominatrice e detentrice della ‘forza coercitiva’” (Gli effetti violenti di un potere privo di autorità, “il manifesto”, 21 gennaio 2021 ).  Ma il fenomeno nuovo è che anche “qualche maschio – come nota Alberto Leiss – persino tra quelli che sono immersi nella logica e nel linguaggio dell’informazione e della politica istituzionale, si accorge di quanto pesi in ciò che accade la dialettica dei sessi, e in particolare la crisi dell’autorità specificamente maschile di cui siamo tutti e tutte spettatori e spettatrici”. (Uomini che se ne accorgono, “il manifesto”, 26 gennaio 2021).

È questo il punto: la crisi riguarda l’autorità maschile. Storicamente per gli uomini autorità e potere si confermano reciprocamente e l’autorità ha assunto una forma gerarchica che poggia sulla non libertà di chi vi è sottoposto. Il modello è stato il pater familias. Io, avendo avuto un padre autoritario, lo so bene e ne porto ancora le cicatrici. Ora però quell’autorità gerarchica si è disfatta. Come scrive Marcel Gauchet in La fine del dominio maschile,si è liquefatta la figura paterna che “era il punto nevralgico del dispositivo, avendo il compito di garantire l’articolazione tra la cellula familiare e l’organismo sociale” (p. 29).

Secondo Arendt – e io sono d’accordo con lei – gli esseri umani hanno bisogno dell’autorità, le comunità hanno bisogno di autorità. Penso che oggi la pandemia abbia accentuato questo bisogno. Dobbiamo poterci fidare di chi si occupa di scienza e di medicina. Attualmente il riferirsi alla comunità scientifica è diventato parte integrante delle scelte politiche del governo. La ricerca di autorità è ipotizzabile come movente anche in scelte politiche recenti quali Draghi come presidente del consiglio e Enrico Letta alla guida del PD. Molto hanno pesato il prestigio e il credito di entrambi. Ma queste scelte rischiano di essere illusorie o di conservare l’esistente se non si avvia una profonda e radicale trasformazione della vita politica.

Sulla politica e sulla distinzione tra autorità e potere molto si è pensato e praticato nel femminismo della differenza, a partire da una scelta di fondo che è stata quella della distanza dal potere. Scelta che ci è stata spesso rimproverata e che oggi sembra da rimettere in discussione. Io penso che non va rinnegate, ma ripensata al presente, secondo quanto dice Luisa Muraro, nel volume di Diotima Potere e politica non sono la stessa cosa: la distanza si esprime oggi nell’indipendenza simbolica dal potere. E aggiunge: “a questa non si arriva senza il lavoro della presa di coscienza e senza la pratica del partire da sé. Che vuol dire: mettendo fine alla cieca identificazione di sé con il centro di gravitazione di tutto e mettendo al centro lo scambio tra sé e le-gli altri” (p. 10)

Questa presa di coscienza è indispensabile e, se guardiamo alla scena politica internazionale, ci sono segni che si stia diffondendo, perché ci sorprende positivamente il fatto che alcune donne ai vertici del potere mettano al centro lo scambio con le altre e gli altri, come risulta dall’intervista a Christine Lagarde pubblicata da Io Donna (Christine Lagarde: “Ho le doti delle donne: sono paziente e inclusiva”, di Alison Smale and Jack Ewing, 3 gennaio 2021 – ).

Dunque quella scelta fatta ormai cinquant’anni fa ha portato guadagni significativi che si possono rigiocare nel presente per la trasformazione della vita pubblica. Dell’autorità, infatti, il femminismo della differenza, in questi decenni, ha elaborato non solo l’idea, ma anche le pratiche politiche. La pensa come una qualità della relazione che si gioca in un rapporto diretto, costruito sulla fiducia e la stima. Io stessa da molto tempo mi muovo nel mondo consigliandomi con un’altra di cui mi fido, riconoscendo ciò che di meglio ha l’altra, e a mia volta accettando di essere di supporto per il desiderio di un’altra.

Proprio perché c’è autorità oggi è possibile tenerla in combinazione con il potere in un gioco consapevole.

Anche il potere c’è. Non è possibile espungerlo dalle nostre vite, per come sono strutturate le nostre società. È il caso invece di prendere coscienza del potere che si detiene, almeno per la posizione che si occupa nella vita associata. Io ho fatto l’insegnante per tutta la vita e so bene che l’insegnante ha a disposizione una certa dose di potere, può bocciare o promuovere, per esempio.  Dalle relazioni di potere non sono certo escluse le associazioni volontarie o i luoghi delle donne. Come redattrice di Via Dogana so che ho il potere di pubblicare o rifiutare un articolo.

In ogni situazione sociale in cui ci troviamo possiamo agire prendendo la strada del potere connaturato alla funzione – e così facendo si perpetua la struttura esistente –, oppure aprirsi alla politica, così come l’hanno pensata e praticata le donne, intesa come trasformazione di sé e del reale. Si può agire a partire da sé e nello scambio con altre e altri in qualunque luogo ci si trovi a essere, che sia una scuola di periferia, un’università, un’azienda, un’associazione di volontariato, un partito, il consiglio comunale o il consiglio dei ministri. Come ho potuto sperimentare nel movimento di autoriforma, che ho contribuito a creare, significa anche aprire conflitti su ciò che non va, costruendo reti allargate di scambi a livello nazionale.

Proprio da queste esperienze di pratiche condivise nella scuola e nell’università, è scaturito il massimo di autorità con il minimo di potere. E forse non è un caso perché l’insegnamento è il contesto in cui è più forte il bisogno di autorità.

Vuol dire che non ci sono due scene, una per l’autorità e una per il potere, una buona e l’altra cattiva, ma una sola scena, quella pubblica, in cui autorità e potere stanno insieme in una combinazione sbilanciata, sempre variabile, con un punto di leva che permette il gioco.

Nella mia esperienza il punto di leva è stato esserci con la mia soggettività. Per una donna, quindi, si tratta di portare nel luogo dell’esercizio del potere, piccolo o grande che sia, l’essere donne, l’essere quella donna lì, con le proprie modalità e il proprio desiderio. Questa mossa apre a un’alchimia in cui si fa spazio per la libertà, la propria e quella di chi condivide la situazione: può essere un piccolo gruppo come è una classe scolastica oppure gruppi e situazioni molto più ampie, fino a un intero popolo. Io l’ho verificato di persona un gran numero di volte nelle mie classi e nell’autoriforma, ma lo vedo anche in donne che gestiscono la vita pubblica. Se guardiamo in quest’ottica l’arcinoto esempio della gestione della pandemia in Nuova Zelanda, notiamo subito che la presidente Jacinda Ardern si è presa la libertà di dire e mettere in atto quello che lei riteneva un buon modo di affrontarla e questo ha permesso alla popolazione di aderire consapevolmente alla sua proposta. Un altro esempio di combinazione sbilanciata dalla parte dell’autorità è quello della ministra del lavoro del governo spagnolo, Yolanda Diaz, che in poco più di un anno ha portato a casa notevoli risultati, l’ultimo riguarda i rider che sono diventati in Spagna ufficialmente lavoratori dipendenti. Il giornalista, Luca Tancredi Barone, parla di lei con ammirazione e della sua gestione annota: “Sempre con fermezza e con il sorriso, senza mai una parola fuori posto, senza che nessuno dei negoziatori, né dalla parte dei sindacati, né della confindustria, si alzi mai dal tavolo delle trattative”. (In Spagna i rider diventano ufficialmente dipendenti, “il manifesto”, 12 marzo 2021).

Penso che il criterio del massimo di autorità con il minimo di potere possa essere accolto anche dagli uomini. Non solo da quelli che insegnano, come è già successo nell’autoriforma gentile, ma anche da uomini impegnati nella vita pubblica, proprio perché qualcosa sta veramente cambiando. E, come si sa, i fatti di natura simbolica possono mutare molto rapidamente.

Marcel Gauchet parla della fine del dominio maschile come di una “rivoluzione tranquilla” in cui anche “i presunti perdenti hanno guadagnato” e sostiene che “la verità è che questa fine ha rappresentato la liberazione di un fardello anche per loro” (p. 49). In effetti analizza come nella modernità, a differenza di altre epoche, la dimensione del pubblico sia diventata il tratto distintivo della maschilità e che sia “un ideale particolarmente esigente, visto che nella ricerca del bene comune o nel compimento della missione loro affidata chiede ai titolari di tali funzioni di astrarsi il più possibile da se stessi”.

Penso quindi che uscire dalla serialità burocratica e dalla ripetizione, tornare ad esserci con la propria soggettività e parzialità, con le proprie caratteristiche umane, può essere liberante e avvincente per uomini che hanno a cuore il mondo.

Mi azzardo a dire che ho intravisto qualcosa di questa alchimia nel presidente del consiglio Giuseppe Conte nel passaggio dal primo al suo secondo governo. Sotto la pressione della pandemia ha perso parecchi dei suoi tratti di esercizio burocratico e notarile del potere e ha messo in gioco più se stesso e questo gli ha fatto acquistare maggior credito, anche ai miei occhi.

In passato a una politica contestuale che partisse da sé e fosse trasformativa attraverso le relazioni sono state rivolte le accuse di essere impolitica o prepolitica. Ora invece vedo in atto una trasformazione dell’idea stessa di politica nella direzione presa dalle donne cinquanta anni fa.

Un segnale importante di questo processo viene da una storica, Silvia Salvatici, quando, parlando della Conferenza di Pechino (1995), sostiene che l’empowerment femminile “non voleva dire portare semplicemente le donne nei luoghi costituiti del potere. Ma portare il potere nei luoghi delle donne: associazionismo, società civile, reti. Il primo tipo di empowerment è un cambiamento importante, ma non è ancora quella trasformazione dell’idea di politica che è storicamente il valore più profondo dell’impegno civile e pubblico delle donne” (intervista in È stato il decennio del #Metoo. Ma le donne riusciranno a cambiare il potere? di Elena Tebano, 27esimaora.corriere.it, 5 marzo 2021 – ).

Forse anche innescato dalle restrizioni della pandemia, nella società c’è un risveglio e cresce il desiderio di nuove forme della politica e della democrazia. Ne sono esempi il “sindacato di strada” proposto da Landini, oppure l’ampio dibattito sulle pagine del manifesto dall’inizio dell’anno attorno alla parola “Isocrazia”, intesa come “capacità e potenza di cui dispongono egualmente tutti i cittadini” (Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, Se la politica è impotente, i corpi intermedi possono rianimarla, “il manifesto”, 19 dicembre 2020). Oppure il numero speciale dell’Espresso di fine marzo titolato L’altra politica, in cui l’editorialista, Marco Damilano, sostiene, con il supporto di Zerocalcare, che è politica quella della società che si auto-organizza nei quartieri periferici ad opera di associazioni e comitati. È l’Altra Politica.

Annie Ernaux di recente ha affermato che la fine della pandemia “porterà a una resa dei conti nella nostra società” (intervista di Massimiliano Virgilio, Fanpage, 19 febbraio 2021). Siamo alle soglie di qualcosa, non sappiamo cosa accadrà e tanto meno lo possiamo controllare. Molte questioni sono aperte ed è un buon momento per giocarsi la carta migliore: un’idea di politica che arriva fino alla singolarità e che è effettivamente trasformativa della società.


Riferimenti bibliografici:

Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 2017.

Luisa Muraro, Introduzione di una idea, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 5-13.

Diana Sartori, Indizi terrestri, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 15-51.

Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, Vita e Pensiero, Milano 2019.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 25 aprile 2021)

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